Politica

Si dimette don Matteo il parroco filo profughi fedele allo zio Prodi

Il nipote di Romano lascia l'incarico: in troppi mi hanno criticato per aver accolto i migranti

Gianpaolo Iacobini

Bologna Non tutte le ciambelle riescono col buco. E se il finto don Matteo incarnato da Terence Hill non ha rivali e resta in onda, fine delle trasmissioni invece per il don Matteo vero, che di cognome fa Prodi ed è caduto al fronte ecclesiale sotto i colpi delle critiche alla sua linea terzomondista e per gli attriti con il Matteo arcivescovo.

Non è una fiction quella che in questi giorni sta andando in scena in terra emiliana, nel cuore del potere rosso appena sbiancato dall'evoluzione democratica della Ditta, che da queste parti vuol dire ancora comunismo e carrello, ma anche Prodi e derivati. Quanto basta (e avanza) perché faccia notizia il passo indietro d'un Prodi di nome Matteo e mestiere prete. Per 12 anni parroco a Ponte Ronca, frazione di Zola Predosa, qualche giorno fa ha annunciato l'addio. Non alla tonaca, ma alla parrocchia di Santa Maria.

Figlio del fisico universitario ed ex eurodeputato Vittorio, nipote del fu premier e già tante altre cose Romano (e di Paolo, Franco, Giovanni e Giorgio, chi più chi meno tutti divisi tra il mondo accademico e quello politico), nella primavera del 2016 l'allora quarantanovenne sacerdote s'era distinto per la proposta di abolire l'uso dell'acqua santa nelle benedizioni pasquali. «Meglio gli ovetti», rispondeva provocatorio al presidente del consiglio d'istituto della scuola che invece si batteva per il rispetto della tradizione. E che era un altro Prodi, Giovanni, per di più suo fratello. Domenica scorsa, invece, il reverendo Prodi è salito all'altare per dar voce ai suoi dolori interiori. E dichiararsi pronto a lasciare l'amato borgo per andare «a dir messa in zona santa Rita di via Massarenti». Un vagare senza meta né parrocchia, attribuito a chi «ha portato in piazza valutazioni negative su di me», ma in parte anche al vescovo, che «già molti mesi fa disse che 10 anni erano abbastanza», ed infine «alle grandissime difficoltà che ho sperimentato, soprattutto l'ultimo anno». Cause diverse e convergenti, sufficienti per il divorzio dai parrocchiani ma criptiche. Quel che manca vien fuori dalle reazioni dei fedeli e dalle cronache.

I primi su Facebook chiedono in gran numero a un altro Matteo, lo Zuppi arcivescovo, di ripensarci, «di non darla vinta a Satana, al male e alla cattiveria di pochi», così evidenziando il peso della Curia nella decisione del parroco dimissionario.

Le seconde ricostruiscono il famigerato annus horribilis, costellato delle polemiche sull'operato pastorale del sacerdote e sulla sua scelta di aprire le porte della canonica ai migranti, facendo di Santa Maria una delle 9 parrocchie bolognesi (su 400) impegnate nell'accoglienza ai minori provenienti dall'altra sponda del Mediterraneo. Iniziativa affiancata ad altre similari, nello spirito dello zio-pensiero racchiuso nell'intervento alla Conferenza interparlamentare dei Paesi G7/G20 di maggio: «Non capisco perché disse Romano - si debba distinguere tra rifugiati e migranti economici. Se uno muore di fame, non dovrebbe migrare?». E non dovrebbe forse trovare accoglienza, il logico corollario? A Zola Predosa, però, non tutti la pensavano così, tanto da indurre il Pd a condannare a più riprese (l'ultima il 5 d'Agosto) «i falsi allarmismi, gli atteggiamenti razzisti e le paure ingiustificate atti a creare tensione sociale».

Ma poi in estate sono arrivati Minniti, la linea dura del governo e le benedizioni d'Oltretevere a far vangelo della ragion di Stato.

E dalle parti di Bologna si sono subito adeguati, sacrificando i Prodi eroi.

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