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Si scrive Celine ma è sempre Céline Se la moda è questione di accenti

La rivoluzione di Hedi Slimane? Riproporre la gonna pantalone che l'azienda faceva negli anni '70

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Parigi «La moda è morta, viva la moda» pensi mentre sulla passerella di Celine (senza accento) atterra un'intera stanza con dentro una ragazza che si guarda nello specchio. Indossa una castigatissima gonna a pieghe a quadretti beige e marrone, camicia bianca, foulard con logo annodato alla Lavallière, blazer dalle grandi spalle, occhiali Aviator, stivali alti ma non troppo e piccola borsa a tracolla. È la copia carbone di una pubblicità scattata negli anni Settanta per Céline (con l'accento), marchio fondato nel 1945 da Madame Vipiana che nel 1996 l'ha rivenduto per 2,7 miliardi di vecchi franchi al Gruppo LVMH. Dopo di lei alla direzione artistica della maison si sono avvicendati Michael Kors, Roberto Menichetti, Ivana Omazic e Phoebe Philo.

Dall'anno scorso è arrivato Hedi Slimane, l'asso pigliatutto della moda contemporanea, uno che ha un'idea ben precisa in testa e per fargliela cambiare bisogna usare i cannoni di Navarone e a volte non bastano nemmeno quelli. La prima cosa che ha fatto arrivando da Céline è stato togliere l'accento e cancellare con la sfilata dello scorso settembre tutto l'egregio lavoro della Philo. Stavolta fa di più: riporta in vita la gonna pantalone, simbolo di un'epoca e di un'attitudine che speravamo di non rivedere. La gonna in questione era una cosa così maledettamente perbene da diventare perversa. Fu infatti la divisa delle inquiete ragazze di buona famiglia che in Francia vengono definite «braguette facile» e che in Italia venivano spedite a studiare dalle suore nella vana speranza di dar loro una calmata.

Non a caso la sfoggiano sul grande schermo grandi bellezze come Florinda Bolkan in Anonimo Veneziano e di Jacqueline Bissetne La donna della domenica. Ne Il fascino discreto della borghesia Buñuel preferisce puntare sul tubino che è sempre rimarrà il simbolo dello chic. Slimane ottiene gli stessi risultati con un peacot blu e con un paio di cappotti cammello di rara bellezza. Molto bella anche la mantella di maglia beige, il poncho in pelo di capra e i jeans infilati negli stivaloni che stanno bene a quattro donne al massimo e tre sono in rehab. Certo in altre mani una simile rilettura didascalica farebbe gridare allo scandalo. Forse è una geniale mossa di marketing più che di stile perché il vero maestro degli anni Settanta è stato Walter Albini. Ebbene Slimane sta ad Albini come il Pantheon francese sta a quello romano. Comunque sia la rivisitazione degli archivi è un metodo che anche Karl Lagerfeld ha utilizzato. Lo rivela a sorpresa Tommy Hilfiger che ha acquistato nel 2004 il brand eponimo di quello che definisce il più talentuoso designer del mondo. «Un giorno racconta gli ho chiesto come facesse a mantenere Chanel al primo posto in tutto. Mi ha risposto: È facilissimo: vado negli archivi di Coco, guardo tutto quello che ha fatto lei nel passato e lo rifaccio per oggi. Tornando a casa ho detto ai miei assistenti di fare lo stesso. Funziona». Non resta che aspettare, dunque. Torniamo ai giorni nostri con coerenza e dignità grazie alla bella collezione di Cedric Charlier.

Il bravo designer belga prodotto dal Gruppo Aeffe di Alberta e Massimo Ferretti parte da un sottile una visone tra il mistico e l'onirico: un volatile come simbolo celestiale di pace e di natura in un paesaggio metafisico e urbano. Questa stampa poetica fa da contraltare al rigorosi montgomery blu con le zip al posto degli alamari, alle gonne a matita e a quell'allure tecno-chic che è la miglior cifra stilistica del brand. Notevoli gli stivali piatti decorati da pins d'ogni tipo. «Moda significa essere eventualmente nudi» dice Vivienne Westwood e suo marito Andreas Kronthaler esegue usando come invito alla sfilata un selfie in costume adamitico. Non si capisce bene cosa abbia a che vedere con una collezione ispirata dal riciclo, dalla sostenibilità, dai consumi calmierati e responsabili, ma è un gran lavoro.

Da DROMe siamo invece nel limbo del «carinismo» dove tutto è ben fatto, corretto e per bene, ma niente apre le porte della percezione su quel concetto un tempo basilare per la moda: raccontare tutto un attimo prima.

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