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La sindrome dello spread e l'esecutivo bipolare

Le frasi contraddittorie: dal "me ne frego" di Salvini al "messaggio di fiducia" di Conte

La sindrome dello spread e l'esecutivo bipolare

Trecento, trecentodieci, punte oltre trecentoventi. No, niente da fare, la febbre non scende. Ricordate il «me ne frego» di Matteo Salvini, appena due settimane fa? E Luigi Di Maio, che snobbava l'impennata dello spread? «Noi andiamo avanti lo stesso», che ci importa del differenziale con i Bund tedeschi, conta solo il cambiamento.

E infatti eccolo qua il cambiamento, nel senso che il governo ha cambiato i toni sperando di non essere costretto a cambiare la manovra. Persino Salvini si è ammorbidito: «Sono sempre d'accordo con Tria e Conte». Dal viso d'arme si è dunque passati al dialogo, dagli attacchi all'Europa ai tentativi di mediazione, dalle denunce di complotti internazionali dei Poteri Forti alla richiesta di «fare squadra» per affrontare «il problema».

Già, «il problema», Giuseppe Conte lo definisce proprio cosi. «Sicuramente - ha detto da Mosca al termine di un incontro con Putin - se lo spread continua a salire, o se comunque si mantiene alto a questo punto, è un problema, quindi dobbiamo augurarci che scenda. Facciamo sistema affinché ciò avvenga». Come? «Vogliamo mandare un messaggio di fiducia. Serve un dialogo costruttivo, bisogna far capire che la nostra manovra è seria, che i fondamentali economici sono solidi». É una questione, dice ancora il premier «di codice di comunicazione». Davvero si tratta soltanto di questo?

Dal bipolarismo politico al bipolarismo psichiatrico il passo è breve, del resto la coalizione gialloverde è abituata a fare la doppia parte in commedia. I Cinque stelle, che stanno al governo come se fossero all'opposizione, poi sono dei veri specialisti nel genere. Ma la svolta «moderata», oltre che auspicata, era attesa da tutti, la linea dura era diventata insostenibile dopo il rialzo dello spread, la bocciatura della legge di bilancio da parte dell'Unione europea e i primi scricchiolii del mercato.

Il primo a suonare la retromarcia è stato Giancarlo Giorgetti, dopo che Moody's ci ha declassato. «Lo spread è un rischio per le banche. L'Europa ha dei meccanismi di sanzione abbastanza lunghi. I mercati hanno però strumenti molto più efficaci e rapidi e sono in grado di metterti rapidamente con le spalle al muro». Come se ne esce adesso? «Abbiamo previsto in Finanziaria un rapporto deficit-pil del 2,4 per cento. Si può non usarlo tutto subito».

E un altro passo indietro l'altro giorno l'ha fatto pure il ministro dell'Economia. «Lo spread a 320 - ha ammesso Tria a Porta a Porta - è a un livello che non possiamo reggere a lungo, non tanto per l'impatto sugli interessi, visto che la scadenza è di sette anni, quanto per il sistema bancario, soprattutto per la sua parte più debole».

Parole molto simili le usa Mario Draghi: «Non ho la palla di cristallo, non so se il differenziale sarà 300, 400 o quant'altro. Certamente i bond sono nel portafoglio degli istituti di credito, se perdono valore ne intaccano il capitale». Il presidente della Bce, che prevede un accordo tra Roma Bruxelles e non interverrà a favore dell'Italia perché «finanziare i deficit non è nel nostro mandato», ha comunque però un consiglio da dare: «Ridurre lo spread e non mettere in dubbio la cornice istituzionale che sorregge l'euro».

Lo ascolteranno? Le prime reazioni non sono concilianti. «Draghi attacca l'Italia», scrivono i deputati M5s, mentre per Paolo Savona «ognuno si assuma le proprie responsabilità».

Ma siccome il governo ha deciso di negoziare, forse sono solo fuochi di propaganda, in attesa della nuova svolta di una maggioranza bipolare.

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