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Quel sorriso coraggioso sa di miracolo

Quel sorriso coraggioso sa di miracolo

Dodici ragazzi, dodici giorni, 2,2 chilometri dall'ingresso della cava, molti calci, un allenatore di football, poche bracciate, sei militari, tredici coperte termiche, sempre meno chili, sempre più denti ad arredare il buio con sorrisi: undici, quattordici, quindici anni. Il coraggio sta nei numeri. Il coraggio sta là dentro. E tutto il mondo fuori. A tremare e sperare. E se ci volessero quattro mesi per liberarli da lì? Macché, molto meno. E se li portassero fuori come dei pacchi delicati, legati a delle barelle galleggianti? E se invece insegnassero loro, a quelli tra loro fisicamente meno provati, a nuotare e ad immergersi? E se invece, nel frattempo, come sembra, ricominciasse a piovere? Dovrebbero tirarsi fuori dal fango da soli, come il Barone di Münchhausen. Perché è dal fango che devono passare per andarsene di lì. E il mondo fuori, che spinge, e più che di entrare chiede a loro di uscire, che qualcuno inizi a farsi partorire per la seconda volta: stavolta dalla terra.

Eppure a dar coraggio, sono loro dentro. Che scherzano con i soccorritori, sorridono nei video, salutano i genitori «chiusi fuori». Quelli che premono contro le pareti di roccia per sentire. L'aria umida e gli echi che sono suggestioni portate dalla speranza più che dalla corrente. Quale corrente, poi? L'aria ferma e il silenzio. E quei dodici là dentro, assieme al loro allenatore che li tiene calmi a forza di respiri lunghi, che spiega loro come sentirsi il battito, gli mostra come leccare l'acqua dalle rocce e ogni quanto. Gli tiene vivo il gioco. E il controllo di sé. Perché è così che si sopravvive. E anche che si vive. Si mettono in bilico sulle pietre, strisciando sul sedere per avvicinarsi all'acqua il più possibile, senza caderci dentro. E per mettere meno distanza tra loro e i soccorritori, per allungare la mano e toccare il mondo che quelli portano là sotto, per essere grati del cibo e degli sforzi e per crederci.

«Sì, siamo tutti vivi». «Sì, andrà tutto bene. Ma che giorno è, oggi? Di dove sei tu? Ah inglese...». Incredibile. Bisogna entrare in quel ventre cattivo per prendere coraggio. E speranza. Per ridimensionare ciò che sembra da fuori. Bisogna avere come unica luce i denti bianchi di quei dodici secchissimi atleti, i bagliori delle coperte termiche e quelle domande semplici, quelle parole pazienti. I piedi scalzi e le facce scavate ma calme.

E tutto il mondo fuori.

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