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La sottomissione della Svezia: le ministre in Iran con il velo

Il governo di Stoccolma si proclama «femminista» Ma nessuna delle 11 donne politiche ha osato ribellarsi

La sottomissione della Svezia: le ministre in Iran con il velo

C'è modo e modo di sottomettersi alla subdola e pervasiva penetrazione islamica in Occidente. La lusinga del denaro in arrivo dai regni arabi inzuppati di petrolio corrompe gli intellettuali (versione Houellebecq); la prepotenza esercitata a tappe da aspiranti sultani sottrae libertà e impone costumi a popoli che si ritenevano a torto irreversibilmente occidentalizzati (versione Erdogan); l'odio di antica data verso il nostro mondo (la «oicofobia» ben definita da Finkielkraut) spinge i sessantottini ingrigiti e i loro più giovani eredi del «pol. corr.» a giustificare le peggiori violenze perpetrate contro le donne e la libertà religiosa.

Sono solo alcuni dei tanti esempi possibili, ma il più imbarazzante è certamente quello offerto dai politici che predicano bene (secondo loro) ma razzolano malissimo (sotto gli occhi di tutti). È successo in questi giorni in Iran, ad opera di una delegazione svedese di primissimo livello, guidata personalmente dal primo ministro, il socialdemocratico Stefan Löfven. Il premier, che a Stoccolma guida un governo di coalizione con i verdi, va fiero della propria aderenza ai valori della sinistra e pertanto si proclama orgogliosamente femminista. Per buon misura, a suo tempo mise in chiaro che anche la politica estera del suo Paese avrebbe dovuto ispirarsi ai princìpi del femminismo.

Coerente con le sue «buone prediche», alcuni giorni fa Löfven è partito per Teheran con una delegazione governativa composta da 15 persone, 11 delle quali erano donne. Tutto molto femminista, non fosse per il fatto che nella capitale iraniana queste orgogliose politiche scudo dei diritti delle donne in tutto il mondo (famosa la recente foto del ministro Isabella Lovin con uno staff tutto al femminile per protesta contro il maschilista Donald Trump) si sono fatte serenamente fotografare velate «per quasi tutto il tempo», come ha scritto indignato il quotidiano svedese Expressen.

Il «pessimo razzolamento» delle donne politiche venute dal politicamente correttissimo profondo Nord ha subito alimentato polemiche feroci in Svezia. Dove ha fatto un pessimo effetto vedere la nutrita quota femminile della delegazione, ricevuta anche dalla «guida spirituale» iraniana ayatollah Khamenei, indossare senza eccezione alcuna l'hijab d'ordinanza. Che per le donne locali è un obbligo che viene fatto osservare anche con le cattive maniere dall'occhiuta e violenta polizia religiosa, mentre per le politiche in visita è un'indicazione di legge che può rappresentare un'ottima occasione (specie per chi si proclama femminista) per mostrare - rifiutandola - una schiena diritta.

Ora, sarà perché a Teheran c'erano in ballo commesse miliardarie per i grandi gruppi industriali svedesi, o forse perché è più facile fare sceneggiate con Trump che con Khamenei, sta di fatto che quelle schiene sono rimaste ben piegate. Lo ha fatto notare, giustamente irata, la giornalista e attivista Masih Alinejad, una donna coraggiosa che in Iran ha creato una pagina Facebook dove si invitano le donne a condividere foto a capo scoperto. «Rispettando le direttive della Repubblica islamica le donne occidentali legittimano l'obbligatorietà dell'hijab. Questa è una legge discriminatoria e non si tratta di una questione interna quando la Repubblica islamica costringe tutte le donne a indossarlo».

La ministra del Commercio Ann Linde se l'è cavata rispondendo che «la legge in Iran dice che le donne devono indossarlo, difficilmente si può andare lì e violare la legge». Difficilmente, appunto. Ma da italiani ricordiamo che Oriana Fallaci si strappò il velo davanti al leader della rivoluzione islamica, chiamandolo «stupido cencio da Medioevo». E l'ayatollah Khomeini abbozzò.

Certo, ci voleva coraggio.

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