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Spariti un reporter e il capo dell'Interpol Insieme alle svolte liberali di Salman e Xi

I casi di Kashoggi e Hongwei sono il simbolo della superficialità occidentale

Spariti un reporter e il capo dell'Interpol Insieme alle svolte liberali di Salman e Xi

Ricordate gli entusiasti cervelloni di Davos pronti a venderci il presidente cinese Xi Jinping come il simbolo del nuovo pensiero liberale? Oppure i toni ispirati con cui televisioni e giornali descrivevano l'Arabia Saudita «nuova e riformata» del 29enne principe ereditario Mohammed Bin Salman? A questi analisti illuminati andrebbe chiesto cosa pensino della scomparsa di Jamal Khashoggi, il giornalista e dissidente saudita svanito nel nulla, ma probabilmente ucciso e fatto a pezzi, all'interno del consolato del suo paese a Istanbul. E gli stessi autorevoli sapientoni potrebbero aiutarci a comprendere quale sofisticata teoria liberale faccia da sfondo alle disgrazie di Meng Hongwei, l'ex vice ministro della sicurezza cinese nominato, assai inspiegabilmente, presidente dell'Interpol nel 2016. Scomparso dopo aver fatto ritorno a Pechino giovedì scorso Meng Hongwei è da ieri ufficialmente prigioniero delle autorità cinesi che hanno approfittato del suo rientro per prelevarlo, ingabbiarlo, fargli firmare una lettera di dimissioni e accusarlo di corruzione.

Entrambe le vicende sono il simbolo dell'approssimazione, della superficialità e della benevolenza con cui garantiamo patenti di democrazia a Paesi e leader molto lontani dagli standard minimi di una civiltà liberale. E per capirlo non serviva la sparizione di un Khashoggi o l'inquisizione, per mano dei suoi stessi padroni, del super poliziotto di Pechino. Per comprendere che il principino saudita non fosse il sovrano illuminato pronto a garantire libertà e privatizzazioni, a cominciare da quella del petrolio così cara alle Borse internazionali, bastavano gli orrori del conflitto yemenita. Una guerra trasformata in quotidiana mattanza dalle incursioni di un'aviazione saudita che, pur di colpire i ribelli Houti appoggiati dall'Iran, scarica le sue bombe su case e ospedali inanellando stragi di civili. E per intuire che la patente di guida concessa a un pugno di suddite fosse uno specchietto per le allodole bastava chiedersi come mai il clero wahabita, così vicino al fanatismo di Isis e Al Qaida, non crei il minimo problema a un principino tanto caro all'Occidente. Ma è stato più comodo chiudere gli occhi e inneggiare ai progressi di un regno dell'Islam oscurantista dove la scure del boia continua a infliggere quelle decapitazioni che ci fanno inorridire solo quando a firmarle sono Isis e Al Qaida.

E lo stesso abbiamo fatto con una Cina dove un capo comunista dopo aver discettato di liberalismo e globalizzazione con i saputelli di Davos si è nominato presidente a vita, ha iscritto il proprio pensiero nella Costituzione e ha preteso che il dissidente e premio Nobel Liu Xiabo, colpevole di credere nei Diritti dell'Uomo, morisse consumato dal cancro in un lager di stato. Prigioniero di queste illusioni l'Occidente è riuscito persino a fingere che Hongwei, un vice ministro della Sicurezza cinese, ovvero uno dei capi dell'inquisizione interna, potesse presiedere con imparzialità quell'Interpol a cui è affidata la caccia ai grandi latitanti internazionali. Una carica che Hongwei ha puntualmente usato per inserire nelle liste dei ricercati centinaia di presunti dissidenti. Ora la sua sparizione e la sua successiva incarcerazione rappresentano una doppia nemesi. Quella di un Mandarino rosso convinto di poter usare la sua prestigiosa poltrona internazionale per tramare contro il proprio capo supremo.

E quella di un'Europa e di un Occidente arrivati ad affidare l'Interpol al rappresentante di una Cina dove diritto e giustizia restano semplici leve dell'arbitrio comunista.

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