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Lo spettro del maggioritario il sistema che crea instabilità

Il "Corriere" guida il fronte contro il sistema proporzionale. Ma sono ancora evidenti i guai creati dal Mattarellum

Lo spettro del maggioritario il sistema che crea instabilità

N ell’ennesimo, schizofrenico, dibattito sulla legge elettorale (in altri paesi le leggi elettorali durano secoli, da noi cambiano come la moda), si è portati ad iscriversi al partito del maggioritario, non fosse altro perché fa chic. Solo che i maître à penser che lo rilanciano oggi, in contrapposizione al sistema proporzionale, somigliano tanto allo smemorato di Collegno, perché superano di slancio, con fervore ideologico, un’esperienza ventennale, piena di ombre.

E, diciamoci la verità, con il passare degli ultimi anni, specie nella legislatura che sta per chiudersi, le ombre si sono allungate a dismisura, nascondendo sempre più gli scarsi benefici. I luoghi comuni su cui si fonda la religione del maggioritario li ha elencati in queste settimane con dovizia di articoli il Corriere della Sera: «facciamo scegliere l’elettore», «il Paese ha bisogno di un sistema per cui la sera del voto si sappia già chi è il nuovo presidente del Consiglio», «l’Italia ha bisogno di stabilità». Un mare di retorica, simile a quella europeista, tanto cara al nostro establishment, che ha avuto un unico risultato, quello di far odiare l’Europa al popolo italiano.

Una retorica che ha la grande colpa di nascondere un’amara verità. Ma davvero il maggioritario ha garantito in questi anni agli elettori del Belpaese il potere di scegliere il governo che volevano, o la stabilità? Forse un tempo. In realtà l’unica legislatura che ha avuto in questi 20 anni uno svolgimento trasparente, improntata a questi principi, è stata quella del 2001-2006, con Berlusconi premier dal primo all’ultimo giorno. Le altre sono state tutto, meno che esempi di stabilità. Alcune hanno avuto più presidenti del Consiglio: quella governata dal centrosinistra dal 1998 al 2001 (esecutivi Prodi, D’Alema, Amato); e quella che sta per chiudersi, che ha avuto lo stesso copione (governi Letta, Renzi e Gentiloni).

Le altre legislature del ventennio maggioritario sono, invece, finite anzitempo: nella prima, quella del ’94, in cui per la prima volta il Cav varcò il portone di Palazzo Chigi, ci fu il famoso ribaltone della Lega; Prodi, invece, in quella del 2006 fu cucinato in due anni, per poi tornare alle urne; quella del 2008, invece, finì con un mezzo colpo di Stato in cui il governo Berlusconi fu sostituito dal governo tecnico di Mario Monti. Insomma, gli elettori hanno scelto ben poco in questi venti anni e i governi (a parte, appunto, quello del Cav del 2011), sono durati in media poco più di quelli democristiani della prima repubblica. Ma allora, chi ha avuto il potere? In questo strano connubio tra maggioritario e sistema parlamentare, si è amplificato, e di molto, il ruolo del Presidente della Repubblica.

C’è chi ne ha approfittato e chi no, a seconda dell’indole del Presidente: c’è chi è rimasto al suo posto, ligio alle proprie prerogative (Ciampi); e chi, invece, ha fatto e disfatto governi (Scalfaro e Napolitano). Al di là dei giudizi che si possono dare sui diversi settennati, la realtà è che nella confusione e nelle contraddizioni del maggioritario nostrano, il Capo dello Stato ha ampliato la sua sfera di influenza a scapito del Parlamento e dei partiti, fino a diventare nell’immaginario collettivo una sorta di monarca: inconsapevolmente siamo arrivati a King George. Il motivo è semplice: in questi venti anni l’appeal dei partiti è declinato nel peggiore dei modi. Era fatale, perché il maggioritario, tanto caro a molti dei nostri illustri intellettuali, ha trasformato il Parlamento - è un fatto - nel regno del trasformismo. In questa legislatura già siamo arrivati a 500 cambi di casacca. Il sistema, insomma, ha partorito partiti sempre più piccoli, creati allo scopo di assicurarsi posti di governo, facendo la spola tra i diversi poli o le diverse coalizioni.

E partiti che si trasformano in strumenti di potere che seguito possono avere presso l’elettorato? Nessuno. Tant’è che si passa dall’affluenza alle urne dell’86,31% del 1994, a quella del 72,25% del 2013. Di più. Il sistema maggioritario, specie ora che nello scenario politico del nostro Paese esistono come minimo tre poli (ma in realtà sono di più), garantisce questi comportamenti. Se si immagina che nelle elezioni del 2013 il Pd e la sinistra si sono assicurati un premio spropositato alla Camera, con meno del 30% e grazie ad appena 300mila voti in più rispetto al centrodestra, si capisce che una formazione del 2% può trattare al rialzo la sua alleanza, mettendosi all’asta tra i diversi schieramenti. E a riparo di questa o di quella coalizione, non pagherà di fronte agli elettori neppure la scelta di aver cambiato alleanza, magari per qualche poltrona di governo.

È il caso di Alfano, che sta tenendo banco in queste settimane: nella tanto deprecata prima Repubblica il leader di un partito che nei sondaggi non arriva neppure al 2%, non avrebbe mai potuto non dico occupare, ma addirittura aspirare ai ruoli di ministro dell’Interno e di ministro degli Esteri nella stessa legislatura. Costi, per usare l’ironia, del maggioritario. Ma è anche un modello che sta facendo proseliti: basta pensare il numero dei gruppi parlamentari che c’erano in Parlamento nella prima Repubblica, nel corso di questi venti anni è raddoppiato, per non dire triplicato. Il tanto tartassato Bettino Craxi, lo aveva profetizzato tanto tempo fa. Qualcuno potrebbe dire: certo il maggioritario ha fatto tanti danni, ma ha dato alla politica la possibilità di riformare il Paese. Neppure questo è vero, specie in uno scenario tripolare: anche in un sistema che assicuri un premio a quel partito o coalizione che superino il 40%, il giorno dopo il voto la maggioranza in Parlamento già non corrisponde più a quella che c’è nel Paese. Il 40% non è il 51%, per citare Berlinguer. Per funzionare un sistema del genere dovrebbe prevedere, oltreché un premio, una sorta di galateo politico per cui le opposizioni danno la possibilità di governare a chi vince: ma in questi anni non è stato così. Anzi.

Il giorno dopo le elezioni comincia un processo di delegittimazione del nuovo governo e della sua maggioranza, a cui si accodano quelli che una volta erano i cosiddetti poteri forti e i media che gli fanno da contorno (il governo del Cav del 2008 docet). Non a caso la riforma costituzionale approvata in parlamento dal centrodestra anni orsono, grazie al maggioritario, naufragò alla verifica nel Paese. E certamente miglior sorte non ha avuto la riforma di Renzi in questa legislatura. Come pure, in questi anni, il processo di delegittimazione ha impedito che uno dei due Poli potesse governare due legislature di seguito. L’alternanza tra i due schieramenti al governo è stata continua, fisiologica, quasi automatica, al di là dei meriti o dei demeriti del governo in questione, al punto da far pensare che questo sistema non lo permetta. Al governo ci puoi tornare (vedi Berlusconi), ma non ci puoi restare.

Da noi esperienze di governo come quelle di Tony Blair (10 anni), di Clinton, Bush e Obama (8 anni), della Merkel (è da 8 anni ininterrottamente Cancelliere) sono addirittura impensabili, perché da noi la Politica gli altri poteri la vogliono debole. A proposito fraulein Anghela si prepara a superare la soglia dei 12 anni di governo, grazie non al maggioritario ma a una legge proporzionale che ha una soglia di sbarramento del 5%, che impedisce ai trasformisti di entrare in Parlamento.

Questo per dire che la scelta di una legge elettorale non deve trasformarsi in un credo religioso, tantomeno in una moda, ma va cambiata, tenendo conto innanzitutto conto delle esperienze, più brutte che belle, maturate.

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