Politica

La strategia del Quirinale: voto a marzo, replica a giugno

Mattarella vuole fissare le elezioni dal 4 al 18 per poter avere il bis in caso di impasse. Franceschini punta al rinvio

La strategia del Quirinale: voto a marzo, replica a giugno

L'unico che ha posto delle questioni serie per motivare lo slittamento di qualche mese del voto politico rispetto all'ipotesi marzo è Silvio Berlusconi. Ha evidenziato la questione del risparmio sui costi con l'idea di un election day (sulla carta, senza una o più unificazioni delle date, ci dovrebbero essere 6 tornate elettorali). E ha rimarcato il tema più politico della sua candidabilità: tener fuori dalla corsa elettorale il leader di uno schieramento nei sondaggi dato vincente, con un artificio giuridico come la famigerata legge Severino, è già di per sé una forzatura; se poi la Corte Europea nel giro di qualche mese, decidesse che l'applicazione di quella legge è stata strumentale, allora saremmo di fronte all'ennesimo colpo di mano. Altri di argomenti ne hanno meno.

Ad esempio, il presidente del Senato, Piero Grasso, sempre in bilico sulla scelta se accettare o meno il ruolo di leader della sinistra anti-renziana alle politiche, ha fatto questo ragionamento, più da capo partito che da seconda carica dello Stato, ad uno dei dirigenti di quello che potrebbe essere il suo schieramento di domani: «So che Dario Franceschini ipotizza uno slittamento del voto. E se io fossi in voi non direi no, un po' più di tempo potrebbe fare comodo».

E poi ci sono quelli che preferiscono ritardare, coerenti con la filosofia di vita tipica degli ex democristiani. «Dovremmo andare ad aprile - osserva Naccarato, organizzatore di Rinascimento, la nuova creatura politica della coppia Sgarbi&Tremonti - e farebbe comodo a quelli del Pd, perché l'election day li favorirebbe. Ci stanno pensando. Uno come Lorenzo Guerini non sarebbe contrario». «Macché! - risponde Guerini, un attimo dopo - Noi cosa ci guadagneremmo? Gli unici che potrebbero avere qualche convenienza sono gli scissionisti di Bersani, che avrebbero più tempo per organizzarsi». Motivo per cui Matteo Renzi non ci pensa proprio. «La verità?» è la domanda a cui il leader del Pd risponde con una battuta che ha il sapore di sentenza: «Io spero ancora che si voti l'ultima domenica di febbraio».

Ma a parte l'album dei desideri, a ben vedere, i bene informati, si sbilanciano su una «tris» per il concorso ippico per la data elettorale: 4, 11 o 18 marzo. Una «tris» data per certa, se si sta appresso agli echi delle discussioni che avvengono nell'unico luogo deputato a decidere sulla questione: il Quirinale. Sul Colle ci si interroga proprio su quelle date. Ma, al di là dei giorni, sono ancora più intriganti gli argomenti alla base di quei ragionamenti. Nelle conversazioni allo studio alla Vetrata (cioè il pensatoio del presidente) è già stato stilato una specie di calendario su quello che potrebbe accadere nella prossima primavera, se si voterà, com'è nei piani, entro metà marzo: si spera che tra le procedure per l'insediamento, le elezioni dei presidenti delle nuove Camere e via dicendo, il nuovo parlamento sia nel pieno delle sue funzioni già nella prima decade di aprile. Poi, il presidente avvierà le consultazioni per dare un governo al Paese: se una coalizione uscirà vincente dalle urne, tutto dovrebbe filare liscio; ma se così non fosse, se il capo dello Stato non riuscisse a sbrogliare la matassa, cosa succederebbe?

E, qui arriviamo al punto topico del ragionamento che rende plausibili quelle tre date: Mattarella vuole avere in mano anche l'arma delle elezioni anticipate (si parla in quel caso del 24 giugno) per «responsabilizzare» - l'espressione non è scelta a caso - i partiti. In altre parole il presidente della Repubblica vuole che se fosse necessario ricorrere, per dare un governo al Paese, a formule diverse dagli schieramenti che si sono presentati al voto, dovrebbero essere i partiti ad assumersene la responsabilità per evitare una fine traumatica della legislatura appena nata. Cioè, sarebbero delle formule politiche (come il pentapartito o il compromesso storico, per tornare alla prima Repubblica), e non istituzionali, come «i governi del presidente», che in questi anni hanno sovraccaricato il ruolo del capo dello Stato e alleggerito quello dei partiti. Tant'è che, ancora oggi, dopo aver tenuto in vita una legislatura prima con un'alleanza con il Cav e poi con i «trasformisti» provenienti dalle file del Cav, Bersani ha il coraggio di rimproverare a Renzi una potenziale alleanza con Berlusconi. Con la nuova filosofia del Colle, i partiti dovrebbero assumersi per intero la responsabilità di possibili alleanze sul piano formale spurie, difendendole di fronte all'opinione pubblica, senza indulgere ad ipocrisie, mentre il capo dello Stato tornerebbe ad essere solo il garante delle istituzioni. Una rivoluzione copernicana rispetto agli anni di Giorgio Napolitano: da King George, passeremmo al notaio Sergio Mattarella.

E sulla candidabilità o meno di Berlusconi? Anche su questo capitolo spinoso sul Colle hanno fatto qualche calcolo, guardando il calendario: per la candidatura del Cav alle politiche la Corte di Strasburgo dovrebbe dare il suo responso entro gennaio; per la guida del governo, se il centrodestra vincesse le elezioni, entro aprile. È possibile? Se la Cedu seguirà i suoi tempi normali ci vorranno 10-12 mesi. Ma in alcune occasioni, particolari (si contano sulle dita di una mano), i tempi sono stati estremamente brevi. E visto che un'esclusione, che in seguito potrebbe essere contraddetta da un verdetto in favore del Cavaliere, determinerebbe un vulnus nel processo democratico di un Paese dell'Unione europea, ci sarebbero tutte le ragioni per accelerare. Ma è una decisione che passa più per Strasburgo, che non per il Quirinale.

«Ecco perché - chiosa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Luciano Pizzetti, che è al crocevia tra Quirinale, governo e Parlamento - restano in ballo le date del 4, 11, 18 marzo. Quest'ultima è la più probabile perché si potrebbe organizzare l'election day per politiche e regionali di Lazio, Lombardia e Molise. E si potrebbero fare le ultime due-tre cose, cominciare dal testamento biologico. Meno probabile lo ius soli».

Già, lo ius soli sembra passato di moda: doveva essere la battaglia su cui la sinistra doveva riunirsi, ma visto che non tira quest'aria, Renzi non ha voglia di inimicarsi pezzi di elettorato moderato gratis.

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