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Sui capigruppo del Pd finisce in quasi pareggio tra renziani e fronda

Eletti Delrio (con la spinta di Gentiloni) alla Camera e Marcucci al Senato. Il nodo poltrone

Sui capigruppo del Pd finisce in quasi pareggio tra renziani e fronda

I l governo Gentiloni rischia di perdere un altro ministro: dopo quello dell'Agricoltura Maurizio Martina, andato a fare il segretario «reggente» del Pd, ecco che si sfila quello delle Infrastrutture, eletto (o per meglio dire acclamato) ieri capogruppo Dem alla Camera.

La scelta, sofferta, alla fine è caduta su Graziano Delrio: renziano della prima ora, ma sufficientemente autonomo, figura autorevole e «non divisiva», dicono nel gruppo. Al Senato, invece, la ha spuntata il candidato voluto fin dall'inizio da Matteo Renzi: Andrea Marcucci. Era lui, in realtà, che i non renziani del Pd avrebbero voluto far saltare: è considerato troppo vicino all'ex segretario, che oltretutto è eletto proprio al Senato: «Sarebbe servita una figura più indipendente, non appartenente alla corrente renziana stretta e capace di non farsi dettare la linea da Matteo», brontolano inviperiti i fautori della «de-renzizzazione» del Pd. Ma quando Martina, nelle lunghissime trattative delle ultime ventiquattr'ore, ha tentato di smuovere Renzi da quella scelta, ha trovato un muro di gomma. Al Senato, i numeri dell'ex premier nel gruppo sconsigliavano ai suoi avversari di andare alla conta, quindi è stato presto chiaro che Marcucci sarebbe rimasto. Per fare vedere che la sua mediazione in nome della collegialità produceva almeno qualche frutto, Martina ha proposto a Renzi, per la Camera, l'unico nome al quale non poteva dire di no: quello di Delrio. Chiedendo un passo indietro al candidato originale, Lorenzo Guerini: renziano sì, ma gran mediatore (l'ex segretario lo aveva ribattezzato «Arnaldo», come Forlani) e assai vicino anche a Delrio: «Io e Graziano siamo così», diceva ieri, avvicinando gli indici, dopo aver incassato con grande fair play l'eliminazione dal ticket. Una cosa però differenzia Delrio da Guerini: il ministro ha un filo diretto con il Quirinale ed è, nel governo e nel Pd, uno dei più vicini a Mattarella. Il suo rapporto con il Colle, insomma, non verrà influenzato da Renzi, nelle lunghe settimane di consultazioni e trattative che si aprono ora. E i ben informati dicono che sia stato Paolo Gentiloni a spingere verso l'intesa sul suo nome.

Fatto sta che nessuno era entusiasta del risultato della mediazione martiniana: il fronte anti-Renzi perché non ha incassato la de-renzizzazione, quello pro-Renzi perché ha dovuto cedere su uno dei due nomi. Martina ha dovuto in pratica «porre la fiducia su se stesso», come dice Antonello Giacomelli, per evitare nuove diatribe. «Ma con questa operazione si è giocato la nostra fiducia», dicono i renziani, che meditano di far scendere in campo un loro candidato (Matteo Richetti?) all'assemblea di aprile che dovrà scegliere il prossimo segretario.

Ora si apre la partita degli incarichi istituzionali: al Pd era stato garantito, secondo la prassi parlamentare, un vicepresidente alla Camera e uno al Senato, e un questore a Palazzo Madama. In pista Ettore Rosato a Montecitorio e Teresa Bellanova o Franco Mirabelli al Senato (mentre a Guerini potrebbe andare la guida del Copasir e a Roberto Giachetti quella della Giunta per le elezioni). Peccato che ai Cinque stelle, appena iniziato a mangiare, sia venuto un grande appetito: ora vogliono fare il pieno di poltrone, con un vice anche alla Camera e un questore al Senato, da togliere al Pd.

Che insorge, ricordando che mai, dalla fine del fascismo, l'opposizione era stata tagliata fuori da quei ruoli.

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