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Sul Pd si abbatte un ciclone da fine regime. Ogni giorno c'è un processo di piazza

Dopo i fischi contro Martina, alla gogna anche Delrio e il governo D'Alema

Sul Pd si abbatte un ciclone da fine regime. Ogni giorno c'è un processo di piazza

Roma - Matteo Renzi prova a difendersi ma la sentenza di condanna, inappellabile, appare già scritta: con il ponte Morandi a Genova sembra crollato anche il regime politico che negli ultimi 20 anni ha segnato la storia politica dell'Ulivo prima e del Pd poi. Con la tragedia di Genova ha preso il via il processo a leader e capi che hanno incarnato nell'ultimo ventennio le stagioni politiche di centro-sinistra in Italia. Un processo che non si sta celebrando in un'aula di tribunale ma nella piazza, reale e virtuale, del Paese.

Il Partito democratico vive la tragedia di Genova come l'inizio della fine: il cambio del nome può essere una via d'uscita ma non garantirà l'assoluzione. Come tutti i processi di piazza, e di popolo, anche quello contro la nomenclatura dem sarà veloce, celebrato sull'onda di un'indignazione di massa e non avrà bisogno di prove inconfutabili per giungere a un verdetto di condanna.

Contro il Partito democratico si respira un clima da Piazzale Loreto. A muovere l'accusa contro l'imputato non ci sono soltanto le tifoserie grilline e leghiste, che oggi incarnano il substrato popolare del Potere «nuovo» in Italia, ma anche quel pezzo di società civile pentito, intellettuali, manager e borghesia illuminata, che ha appoggiato e fiancheggiato le stagioni del centrosinistra. Tutti segmenti della società italiana, dai giornali agli intellettuali, da Fiorella Mannoia a Roberto Saviano e Aldo Masullo, che si sganciano o sono fortemente critici.

I vecchi capi, da Romano Prodi a Walter Veltroni, si avvalgono della facoltà di non rispondere, sperando nella grazia. I nuovi leader, Matteo Orfini e Maurizio Martina, invocano clemenza. Renzi prova a resistere, lanciandosi in invettive autodifensive per salvare l'ultima fase del regime, vissuta da leader indiscusso. Ma ormai anche la stampa, non offre più sponde al rottamatore. E difficilmente si schiererebbe in difesa dei vari Martina e Orfini.

Così Renzi resta l'ultimo fortino prima della capitolazione finale. Ieri, nell'ennesima arringa difensiva, che arriva dopo l'intervista a Repubblica in cui provava a ribattere alle accuse al Pd di Lega e M5s sui legami con Autostrade, ha sollecitato l'avvio dei lavori della commissione di inchiesta sulle fake news. Mossa che non ha fermato il processo in piazza.

Ogni occasione è buona per richiamare il Pd alle responsabilità politiche degli ultimi 20 anni. Il crollo del ponte Morandi è il giorno per inchiodare sul banco degli imputati i governi targati centrosinistra e la stagione delle privatizzazioni. In piazza, alla gogna, è il turno dell'ex ministro renziano alle Infrastrutture Graziano Delrio, accusato di non aver ascoltato gli allarmi del senatore Rossi sul ponte Morandi. Con Delrio la piazza crocifigge i governi di centrosinistra (Prodi e Gentiloni) per le concessioni e i rinnovi ad Atlantia e soprattutto per aver secretato gli atti. La caccia sfiora Sergio Mattarella, che nel 1999 era vicepresidente del Consiglio nel governo presieduto da Massimo D'Alema, che diede l'ok alla privatizzazione di Autostrade.

I fischi e le urla contro il segretario del Pd, Maurizo Martina, ai funerali delle vittime, rievocano l'immagine della folla inferocita che condannò Gesù e salvò Barabba dalla crocifissione.

Ma in questo caso la resurrezione del Pd potrà avvenire soltanto sotto «nuove» vesti.

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