Cronache

Dopo le svastiche scritte Br: nuovo oltraggio agli agenti

Imbrattata di nuovo la lapide di via Fani. La memoria di Moro calpestata dal «compromesso storico» dell'odio

Dopo le svastiche scritte Br: nuovo oltraggio agli agenti

C'è l'odio per lo «sbirro», quello che da sempre accomuna criminali politici e delinquenti comuni, e - nella galassia del terrorismo - è il principale punto di contatto tra eversione rossa e galassia nera. E c'è anche, nella teppaglia qualunquista che si muove nelle nostre metropoli, un immaginario confuso e grezzo, dove i drammi della storia nazionale si confondono: così per insultare degli agenti caduti facendo il loro dovere si possono impiegare indifferentemente i simboli nazisti e le sigle dei terroristi rossi.

Sulla lapide per i cinque poliziotti caduti in via Fani, un mese fa era apparsa una svastica con la scritta «a morte le guardie». Neanche il tempo di ripulirle, e le steli di marmo vengono di nuovo oltraggiate. Stavolta la vernice è rossa, e traccia semplicemente la sigla delle Br. Non le hanno tracciate certo veri brigastisti né veri nazisti. Ma la doppia ingiuria racconta bene quanto rimanga, a dispetto dei colti convegni per il quarantennale del sequestro Moro, della predicazione estremista: un magma confuso, un odio indistinto per lo Stato.

È ignoranza, ma non è solo ignoranza. La storia dei due fronti terroristi che imperversarono in Italia racconta che sia neri che rossi attinsero, al momento del passaggio nella lotta armata, nell'armamentario della malavita: l'ultradestra romana e anche frange consistenti di quella milanese erano contigue al mondo del narcotraffico; nella nebulosa della violenza rossa c'erano formazioni espressione dirette della criminalità e del mondo carcerario, come i Pac, quelli di Cesare Battisti. Che il poliziotto fosse il nemico da abbattere, ben più dell'avversario politico, era quasi naturale, vista questa matrice comune. Non è un caso che le Brigate Rosse in tutta la loro tragica epopea abbiano ucciso solo, e agli esordi, due neofascisti (i militanti missini Mazzola e Giralucci, trucidati a Padova) e abbiano poi ammazzato a sangue freddo un numero incalcolabile di carabinieri e poliziotti, come i tre agenti del commissariato Ticinese, trucidati in via Schievano la mattina dell'8 gennaio 1980, unicamente per dare il benvenuto a Milano al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, appena nominato alla divisione Pastrengo. Fu un delitto cinico e feroce, di cui Barbara Balzerani, che partecipò personalmente al massacro, non ha mai dato alcun segno di pentimento e nemmeno di autocritica: ma di cui, a differenza del sequestro Moro, non è mai riuscita a dare una spiegazione sensata se non quella del sangue per il sangue. Nulla di strano, insomma, se ora sulla lapide che racconta altri poliziotti assassinati, a distanza di pochi giorni - tracciate dalla stessa mano, o da mani diverse: poco cambia - appaiono ingiurie distanti eppure identiche. D'altronde radici culturali e progetti politici di entrambi gli schieramenti erano tanto rozzi quanto fumosi, ed era inevitabile che alla fine i due mondi si ritrovassero contigui. Come accadde (lo racconta bene Raimondo Etro, uno del commando di via Fani) nel carcere per pentiti di Paliano, dove tra la brigatista Emilia Libera e Sergio Calore dei Nar scoppiò addirittura l'amore.

Intanto ieri Maria Fida Moro è tornata a polemizzare con lo Stato che consente alla Balzerani e altri Br di venire trattati come eroi nazionali.

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