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Tav, l'analisi non esiste. Altro rinvio gialloverde

La commissione costi-benefici ancora non si è insediata. Il peso dei «no» del vicepremier Di Maio

Tav, l'analisi non esiste. Altro rinvio gialloverde

Aneddoti sullo stile di governo 5stelle. Giovedì scorso un deputato piddino, Davide Gariglio, ha voluto vederci chiaro al ministero delle Infrastrutture su quell'organismo che deve valutare il rapporto costi-benefici della Tav e che tiene con il fiato sospeso chi vive sia al di qua, sia al di là delle Alpi. I funzionari di Toninelli prima sono stati reticenti, poi, visto che il loro interlocutore non schiodava, hanno ammesso che la commissione non è stata ancora insediata perché la Corte dei Conti ha fatto dei rilievi: è difficile che li abbia avanzati sulle parcelle dei componenti, mentre è più probabile che riguardino i requisiti degli esperti a cui Di Maio ha affidato il giudizio di Dio sull'opera. Risultato: Toninelli, per dare il suo ok alla Tav, sta aspettando il parere di un organismo che, nei fatti, ancora non c'è. Già, l'arte del rinvio.

Altro esempio di filosofia di governo grillina. Il ragioniere dello Stato, Daniele Franco, anche se è additato come uno dei complottardi contro il governo del cambiamento, ha tentato di aiutare Di Maio a far quadrare i conti sulla legge di bilancio. Gli ha suggerito, ad esempio, visto che il reddito di cittadinanza se tutto andrà bene partirà ad aprile, di mettere nella manovra del 2019 solo il costo dell'intervento per gli 8 mesi restanti, cioè 6 miliardi, e non i 9 miliardi previsti per l'intero anno. Ma non c'è stato nulla da fare. «Se dico che spenderemo di meno ha spiegato il vicepremier 5stelle l'opinione pubblica non capirebbe». Insomma, più del provvedimento, più dell'esigenza di rassicurare Europa e mercati, conta «l'annuncio».

E ancora: la scorsa settimana c'è stato un grande scontro sulla questione della riforma della prescrizione proposta dal ministro grillino Alfonso Bonafede. I leghisti si sono opposti, come pure le opposizioni. Ma l'argomento ora già sembra dimenticato, perché? «Abbiamo capito tutti risponde il più garantista dei leghisti, Luca Paolini che finirà a tarallucci e vino». «I grillini gli fa eco il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato lo hanno archiviato. Tirano fuori un tema e poi lo rinviano, come la peggior Dc. Ma, rispetto a loro, anche i peggiori democristiani, per stile e competenza, erano dei giganti».

Siamo al gioco delle tre carte, reso famoso da un andreottiano doc come Paolo Cirino Pomicino. E il paragone, sotto sotto, non dispiace agli stessi 5stelle. Solo che i democristiani di una volta, che pure, a proposito di legge di bilancio, hanno dato il loro contributo ad innalzare il debito pubblico alle stelle, avevano ben altro stile: erano mossi da una visione politica, condivisibile o meno, che ora, invece, non c'è. Semmai c'è dell'altro. «Certo ammette in un momento di sincerità il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano che una forma di paraculismo ci aiuta. Il rinvio può anche essere uno strumento in politica. Ad esempio quando diciamo analizziamo la Tav. La parola analizzare, che tradotta è prendere tempo, può essere un escamotage». Appunto, può essere una tattica, ma se rinvii devi sapere quando, dove e per cosa. Nei grillini, invece, questa consapevolezza non c'è. «Questi si inalbera Guido Crosetto di Fratelli d'Italia uccideranno il Paese senza accorgersene. Il ministro dell'Ambiente Costa, da buon carabiniere, esegue gli ordini di Di Maio, per cui dice di no a tutto ciò che non è energia solare. Pure alla sostituzione delle centrali a carbone con quelle a gas, che sono infinitamente meno inquinanti. Sono no che costano miliardi».

Lunedì pomeriggio era a Montecitorio, per un'audizione nella sala del Mappamondo, il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia. Nero in volto. «Siamo seduti su una polveriera si è sfogato in privato . L'Europa dice che siamo al 2,7% di deficit? Ma sarà anche molto più alto se non c'è crescita. E con Di Maio e i suoi non si riesce a parlare».

È uno dei limiti di «Giggio bimbo»: per un «no» si offende o accusa chi non è d'accordo con lui di lesa maestà. «Dopo le critiche che abbiamo fatto sul reddito di cittadinanza confida Boccia , Di Maio ha chiuso tutti i rapporti con noi. Sono fatti così: li critichi e ti criminalizzano. Succede a noi, succede ai giornali. Potevano spalmare la manovra di 30 miliardi in 4 anni, invece, hanno voluto fare tutto subito. E non ne verrà niente di buono. Vorrei dire queste cose con il loro linguaggio, rispondergli a tono, ma il ruolo istituzionale me lo impedisce. Resta la Lega con cui gli industriali del Nord tentano di giocare di sponda. Ma poi».

Già, ma poi? Certo non è che i leghisti non comprendano che sullo schema grillino si rischia di andare a sbattere: mentre Virginia Raggi, in versione prima Repubblica, fa sapere a Palazzo Chigi che vorrebbe assumere 2mila vigili urbani, il sottosegretario leghista all'Economia Garavaglia punta alla realizzazione di tutte le infrastrutture, come vogliono gli industriali, dalla Tav alla Pedemontana. «Per la crescita spiega dobbiamo fare investimenti à gogo». Solo che tira da una parte, tira dall'altra, la manovra continua a mantenere quel profilo indefinito che non piace a Bruxelles. E sorge il dubbio che Di Maio e Salvini, in disaccordo su tutto, siano d'accordo solo su un punto: la gestione del potere. In fondo aveva ragione quell'anima candida del professor Alberto Bagnai quando, agli albori di questa esperienza di governo, teorizzava: «Avremmo potuto mettere al primo punto del programma anche l'incendio di Nerone L'unica cosa importante sono le 300 nomine in scadenza». Ora, Enrico Costa, azzurro con buone entrature nella Lega, dice la stessa cosa: «Sulle nomine vanno d'accordo, fagocitano tutto. Salvini, però, deve stare attento a non farsi imbrigliare dal desiderio di potere».

L'appartamento in centro, le donne, l'ossequio dei potenti e l'irresistibile ebbrezza che si prova a dispensare potere: alla fine si rischia di essere obnubilati, di perdere l'orientamento. È successo a molti: se Craxi fosse andato alle elezioni nel '91, e non un anno dopo, forse sarebbe ancora qua; se Berlusconi nel 2011 avesse puntato alle urne, non è detto che questi anni non sarebbero andati diversamente; se Renzi avesse strappato le elezioni a Mattarella sei mesi prima, magari sarebbe ancora in sella. Certo con i «se» non si fa la Storia, ma restare in un quadro politico, a dispetto dei suoi limiti e delle sue difficoltà, logora.

Valeva per il patto del Nazareno, vale per «l'inciucio» gialloverde. In più ci sono le diversità: ci sarà una ragione se i leghisti, per modificare le storture della legge Severino, non si confrontano con i grillini, ma chiedono un emendamento a quelli di Forza Italia, o no?

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