Politica

«Temeva la fine di Moro Bettino fece bene a non tornare in Italia»

Il suo ex delfino Martelli racconta Craxi nel nuovo libro: «Non c'era più lo Stato di diritto»

Stefano Zurlo

L'ultima volta? «Natale '99. Stefania me lo passò al telefono: Ti aspetto ad Hammamet. Tutti e due piangevamo. Dai, e porta anche tuo figlio Giacomo. Non ho fatto in tempo, è morto prima».

Claudio Martelli sospira: «Nel '93 quando Silvano Larini mi accusò per il Conto Protezione io pensai a una qualche forma di vendetta da parte di Bettino e per questo mi allontanai dal partito. Ma oggi posso dire che mi sbagliavo».

Sbagliò invece Bettino a non rientrare in Italia dalla Tunisia?

«Ma no. L'avrebbero incarcerato, forse sarebbe morto o addirittura l'avrebbero ucciso. Lo stato di diritto non c'era più, la gente aveva la bava alla bocca. Al Raphael fu linciato, perché di questo si trattò quando gli lanciarono addosso le monetine. E lui aveva la paura di fare la fine di Moro».

D'Alema?

«Che ipocrisia quella di D'Alema: non fece assolutamente nulla, se non chiedere il permesso a Borrelli e agli altri magistrati che risposero: Ok, lo piantoneremo in ospedale. E sempre D'Alema si è vantato di aver sostituito sulla scena italiana ed europea il Psi con il Pds. Vergognoso».

Che cosa avrebbe dovuto fare il capo del governo?

«Per esempio contattare un governo amico, penso a Spagna o Portogallo, e poi imbarcare Craxi su un aereo per farlo operare a Lisbona o Madrid. Invece, Bettino finì sotto i ferri a Tunisi in una situazione precaria, con un infermiere che reggeva la lampada. E infine morì per quell'intervento».

In occasione del ventennale della morte sono riprese le polemiche.

«Craxi conosceva bene il problema del finanziamento illecito, ma pensava che ci sarebbe stata una terza amnistia. Ne hanno già fatte due ripeteva, ne arriverà un'altra. Sottostimava il problema».

Ma non c'erano anche quelli che si arricchivano con i soldi del partito?

«Certo, l'opinione pubblica s'indignava sempre di più, e intanto la partitocrazia si espandeva, ma lui era concentrato su altro».

Insomma, non ascoltò i campanelli d'allarme?

«Io per la mia parte gli proposi un'autoriforma del Psi per bloccare questi signori delle tessere, specie al Sud, ma alla fine il progetto si arenò».

Perché?

«Un bel giorno mi disse: Il partito ha deciso così. Io rimasi di stucco e insistevo: fra l'altro l'autoriforma mi pareva il giusto complemento della riforma istituzionale che lui aveva vagheggiato. Che senso ha mettere mano allo Stato se poi non tieni a freno i partiti e i loro robusti appetiti? Ma evidentemente era stato sollecitato in quella direzione e non se ne fece più nulla».

Martelli ha appena scritto un libro denso di aneddoti e riflessioni sulla figura ancora cosi divisiva del segretario del Psi: «L'antipatico» in uscita per La nave di Teseo.

Lei gli è stato vicino per tanti anni. Come era da vicino?

«Se Forattini lo disegnava come un novello Mussolini, con gli stivaloni, lui replicava: Ma io non sono autoritario. E con una punta di compiacimento aggiungeva: O almeno, non quanto dicono».

L'uomo che lei ricorda?

«Un discreto ballerino di samba. Allergico alle dorate case borghesi e ai riti estenuanti e raffinati della Milano da bere. Lui amava la cucina povera e si divertiva a cantare in compagnia le canzoni popolari italiane, francesi, spagnole. C'è un episodio che la dice lunga».

Quale?

«Una sera, forse un sabato, alcune signore bene cinguettavano: Bettino, Bettino, hanno aperto due nuovi ristoranti scicchissimi. E lui, con un barrito d'elefante: Lo chic mangialo tu. Io vado in trattoria».

Il suo fu davvero un socialismo moderno?

«Sì, e per due ragioni».

La prima?

«Riprese il filone minoritario nel partito del socialismo liberale teorizzato da Carlo Rosselli. Non si trattava solo di accettare la democrazia, come già avevano capito Turati e Treves, ma anche il capitalismo. Non solo preoccuparsi di redistribuire la ricchezza, ma anche di produrla. Un'idea innovativa, molto innovativa negli anni Sessanta. Ecco, magari Bettino questi concetti non li declamava in un comizio, ma nelle assemblee lo sentivo correre in avanti. Molto avanti».

Il secondo tratto?

«Lui aveva il culto per Cesare Battisti e dunque per un socialismo tricolore, italiano, non importato che affondava le sue radici nel Risorgimento: Garibaldi e Mazzini, anche se il secondo nome veniva pronunciato con prudenza per non incorrere nelle ire di Spadolini. Per lui i Mille erano più importanti della Resistenza».

Come tutto questo si tradusse in concreto?

«Con l'azione del Craxi presidente del consiglio. Capace di domare l'inflazione abbattendo il totem della scala mobile e rilanciando la crescita che fra l''83 e l''87 fu del tre per cento l'anno. L'Italia divenne la quinta potenza mondiale e quella fu l'ultima grande stagione di ottimismo per il Paese».

Innescando la spirale del debito pubblico che raddoppiò in un decennio, dal 60 al 120 per cento.

«La causa principale di quel disastro fu un'altra: il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia come spiego nel libro».

A Sigonella Craxi lasciò scappare il mediatore Abu Abbas. Un errore?

«E perché? Furono salvati centinaia di ostaggi e i sequestratori dell'Achille Lauro furono processati e condannati. Bettino era un decisionista: sapeva scegliere l'obiettivo di fondo senza fermarsi davanti a tutti i cavilli giuridici.

Ma proprio questa sua libertà visionaria lo espose a critiche violentissime che il tempo non ha attenuato».

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