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Il tocco magico perso dai leader

Il tocco magico perso dai leader

Quel tocco magico, il «magic touch» della grande canzone dei Platters del 1956 che evocava incantesimi e campanelli dal suono celestiale. Non ha nulla a vedere con il «fattore C» che può innalzare o condannare qualsiasi essere umano. È semplicemente quello stato di grazia che inebria i politici più popolari, prima di riportarli bruscamente sulla terra non appena la lampadina dell'esaltazione si fulmina.

Citofonare Matteo Salvini, ultimo esempio. Gode di un gradimento straordinario, ha vinto tutte le ultime elezioni, guida il partito che domina i sondaggi. Resta fortissimo, ma questa pazza crisi politica di mezza estate per lui segna la fine della musichetta paradisiaca. Tutto gli è riuscito alla perfezione fino all'avvitamento sulla mozione di sfiducia al suo stesso governo, che l'ha proiettato di colpo in una dimensione più normale. Da formidabile uomo di consenso a politico poco avvezzo ai giochetti parlamentari. Così va il mondo, così funziona a Palazzo.

Basta un nonnulla perché la stella in ascesa di un leader cominci ad offuscarsi. E spesso non occorre neppure un incidente di percorso se i mutevoli umori dell'elettorato cominciano a trasmigrare verso nuovi soggetti. Mario Monti è stato vittima della sua stessa austerità che alla fine ha prodotto esodati e prelievi fiscali esosi. Matteo Renzi dopo la sconfitta del referendum 2016 si è incartato tra guai giudiziari di famiglia e comparsate televisive di modesta portata. E parliamo dello stesso wonderboy della sinistra mondiale che entrava e usciva dalla Casa Bianca e che non sbagliava mai mosse politiche o battute a uso giornalistico. Magari il Matteo fiorentino ritornerà al potere data la giovane età (44 anni), ma il campionario degli effetti speciali è ormai svanito nel tempo.

E Bersani che nel 2013 era osannato per il suo linguaggio pittoresco fatto di giaguari da smacchiare e bambole da pettinare? Per lui il campanellino dei Platters ha smesso di suonare quando ha perso clamorosamente elezioni politiche già vinte. Bye bye.

Negli d'oro di Palazzo Chigi anche D'Alema era l'emblema del leader vincente cui riusciva tutto, tipo i 6 gol che Schillaci inanellò al mondiale di Italia '90 prima di sprofondare nell'anoninato. Il leader Pds cucinava risotti in televisione, duettava con Gianni Morandi, segnava persino in quelle partitelle tra politici con le pance e il fiatone che finivano in prima serata tv. Poi l'incantesimo si è spezzato.

E come dimenticare Anna Finocchiaro, vezzeggiata dal mondo progressista come la lady di ferro destinata a diventare la prima donna presidente della Repubblica nel 2015. Ne aveva tutti i requisiti: magistrato, progressista, mai un guaio giudiziario. Ma l'Italia in quegli anni ribolliva contro la casta. E lei ne fece le spese più di tutti, senza la minima colpa, quando uscirono le fotografie degli agenti della scorta intenti a spingere il suo carrello della spesa al supermercato. Fine del momento magico, un fenomeno troppo effimero per essere decifrato.

Ma ha un tratto inconfondibile: si dissolve nello stesso attimo in cui si manifesta.

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