Politica

Torniamo al Consolato per evitare la dittatura

Serve una legge elettorale che permetta ai poli di accordarsi sui programmi per governare

Torniamo al Consolato per evitare la dittatura

Sembrerà paradossale, ma per spiegare a Matteo Renzi i motivi della sua sconfitta bisogna, può sembrare assurdo, citargli Enrico Berlinguer: «L'Italia non è un paese che si governa con il 51%». Questa frase dell'ex-segretario del Pci risale a più di quarant'anni fa, ma declinata nella realtà 2.0 potrebbe essere modificata così: forse non ci sarà più bisogno del 51%, ma sicuramente quel 30% con cui il premier dimissionario ha tentato di cambiare la Costituzione, è davvero poco, troppo poco. Un'offesa al senso comune che simboleggia il peccato originale di questi anni, di cui la batosta subita da Matteo Renzi - non per colpa sua o, comunque, non solo sua - è l'epilogo finale: dal 2011 in poi la classe dirigente di questo Paese, se ne è infischiata del consenso, della rappresentanza. Per imporre delle politiche sbagliate per l'economia o per l'immigrazione, in ossequio vuoi agli euroburocrati di Bruxelles, vuoi ai mercati, vuoi per soddisfare i propri interessi nella battaglia per il Potere, ha usato tutto, proprio tutto, dalle manovre di Palazzo, alle congiure internazionali, ai meccanismi legulei piegati agli interessi di parte, meno che la bussola di ogni democrazia, cioè il consenso.

Teorico di questa visione della politica e vero sconfitto di domenica scorsa è stato l'ex-presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l'uomo che appena qualche settimana fa ha commentato la vittoria di Donald Trump negli Usa con una frase che fotografa anche i limiti del suo approccio alla realtà italiana: «Il suffragio universale non è sempre stata una storia di avanzamento ma anche foriero di grandissime conseguenze negative per il mondo».

Appunto, gli elettori non hanno sempre ragione e, se è possibile, meglio non farli votare perché potrebbero sbagliare. Ecco l'errore di Napolitano, innanzitutto, e di conseguenza di Renzi (insieme all'intero establishment italiano a partire dalla stragrande maggioranza dei giornali e delle Tv), è stato proprio quello di non calcolare la distanza che divide il Palazzo dal Paese. Un distanza siderale. E la classe dirigente commetterebbe un errore fatale se non facesse tesoro della dura lezione che gli è stata impartita. Ad esempio, chi dice che l'astensionismo è ormai è un dato strutturale del nostro sistema, dice una grande menata: se gli elettori si accorgono che il loro voto conta sono pronti ad affollare come un tempo le urne (il 67% di domenica scorsa è strabiliante per un referendum). Ma proprio perché vogliono contare non accettano più formule di governo astruse, che non nascano da una chiara indicazione popolare: esecutivi «tecnici», di «scopo», «istituzionali», sono espedienti lessicali finiti definitivamente in soffitta. Ecco perché il Palazzo sbaglierebbe se, per risolvere la crisi che si è appena aperta, si intestardisse a seguire i sentieri di un tempo. Non per nulla i leader più avveduti già si sono smarcati: Grillo e Salvini chiedono elezioni subito. Berlusconi è pronto a confrontarsi sulla legge elettorale, ma esclude a priori l'ingresso in una maggioranza o un appoggio ad un qualsiasi governo prima delle prossime elezioni. «Non sono pazzo», è la sua sentenza. E in fondo lo stesso Renzi è consapevole dei rischi e vuole far presto. Fosse per lui, che non ci pensa proprio a lasciare la segreteria Pd, metterebbe in piedi un «governo Delrio» (cioè di un personaggio di fiducia che non gli farebbe lo scherzo di voler durare a differenza di Franceschini, Padoan o Grasso) e andrebbe alle elezioni in primavera, in tempo, nella sua mente abituata all'azzardo, per partecipare al G7 di Taormina in caso di vittoria. «Qui più passa il tempo - ha fatto presente ai suoi - e più mi logoro io e il Pd».

Per cui a ben vedere l'obiettivo prioritario per tutti è ridurre la distanza tra cittadini e Istituzioni, attraverso un percorso lineare che non provochi nuove distorsioni. E allora l'attuale maggioranza, quella che nell'ultimo voto di fiducia al Senato ha potuto contare su 182 senatori, ha l'onere e il dovere di eleggere il premier che vuole (se non ci sarà Renzi un altro nome indicato dal Pd). Senza inciuci, con l'opposizione che può essere coinvolta solo nel confronto sulla nuova legge elettorale: una legge che deve essere approvata in tempi brevi e che deve puntare innanzitutto a far corrispondere il più possibile la maggioranza che c'è nel Paese con quella che c'è nel Palazzo. In fondo la strada più semplice, se tutti hanno davvero fretta di votare, sarebbe quella di sollecitare la Consulta ad esprimere il suo responso sull'Italicum. Un giudizio che, sulla base delle sentenza passate, sarebbe abbastanza prevedibile secondo le voci di corridoio: i giudici togati avrebbero in mente di eliminare il ballottaggio, lasciando in vigore il premio solo per il partito (ma si potrebbe pensare anche ad una coalizione) che raggiungesse il 40% in un unico turno; rimarrebbe la soglia di sbarramento al 3% e, probabilmente, sarebbe abolita la norma sui «capilista» bloccati.

Per cui uno schieramento che arrivasse al 40% potrebbe usufruire del premio che gli consentirebbe di governare il Paese; in caso, contrario, sulla base di uno stato di necessità, due dei tre poli, o una parte di essi dovrebbero individuare un governo e un programma comune secondo le logiche dei sistemi proporzionali puri. Un meccanismo elettorale, quindi, che in un primo tempo spingerebbe le forze politiche a coalizzarsi per raggiungere la percentuale del 40%; ma che, se l'obiettivo non fosse raggiunto, le lascerebbe libere di ricercare una maggioranza che avrebbe un suo riscontro anche nel Paese, per evitare esperienze come quelle del referendum di domenica scorsa. Insomma, non avremmo un premier che, per fare gli esempi di Letta o di Renzi, pur avendo ottenuto solo il 33% dei consensi nelle ultime elezioni politiche, governerebbe sulla base di un espediente elettorale che ne moltiplicherebbe i consensi nel Palazzo in maniera artificiosa allontanandolo dalla realtà del Paese (la costante degli anni di Napolitano), ma un sistema che spingerebbe due Poli su tre ad acconciarsi, per necessità, in una sorta di Consolato.

Per rifarci alla romanità due Consoli, invece, di un Dittatore.

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