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"Trattativa Stato-mafia una boiata pazzesca Di Matteo populista"

Il giurista e lo storico, di sinistra ed esperti di Cosa Nostra, smontano così il processo

"Trattativa Stato-mafia una boiata pazzesca Di Matteo populista"

C'è chi il processo sulla trattativa Stato-mafia lo riassume così, con parole comprensibili a tutti: «Se la trattativa fosse un reato, se lo Stato avesse ceduto, se la mafia avesse tratto benefici, allora le istituzioni sarebbero colpevoli. Ma non è così». Non è una frase di un berlusconiano della prima ora, ma di un giurista come Giovanni Fiandaca, il titolare di Diritto penale all'università di Palermo che da sempre rappresenta un punto di riferimento per la cultura di sinistra, in passato candidato per il Pd alle europee. Colui che l'ex pm Antonio Ingroia, il «padre» dell'indagine sulla trattativa, considerava il suo maestro. Dunque un insospettabile, che parla da tecnico.

Fiandaca ha scritto, con lo storico Salvatore Lupo, La mafia non ha vinto (Laterza), un saggio nel quale i due studiosi sostengono una tesi sorprendente: l'impianto accusatorio del pool di magistrati di Palermo non regge, Cosa Nostra non è stata salvata e non è stato commesso alcun reato, perché se ci fosse stata una trattativa sarebbe stata comunque «legittima», con l'unico scopo di bloccare le stragi. Uno sguardo nuovo su una vicenda piena di ambiguità e di nodi tecnici da sciogliere. Il dibattimento appena concluso secondo il giurista non si sarebbe mai dovuto celebrare, tanto meno davanti a una giuria popolare impreparata ad affrontare questioni di diritto tanto sottili. Invece sulla trattativa che lo stesso Fiandaca aveva definito sul Foglio «una boiata pazzesca» il processo c'è stato e per ora l'impianto accusatorio non è stato sconfessato, nonostante le sue perplessità sul reato, «minaccia a corpo politico dello Stato», ipotizzato perché quello di «trattativa» non esiste. Lo studioso inquadra tutto nell'ottica del cosiddetto «populismo giudiziario», quel fenomeno che a suo dire si verifica quando «un magistrato pretende di assumere un ruolo di interprete delle aspettative di giustizia del popolo, al di là della mediazione formale della legge e in una logica si supplenza se non di conflitto con il potere politico». Esempio ne è - Fiandaca lo cita in un articolo sulla rivista Criminalia - proprio il pm della trattativa, Nino Di Matteo, che «trae dal consenso popolare la principale fonte di legittimazione del proprio operato». Quel Di Matteo che non disdegna la politica, sostenendo di non vergognarsi della stima dei Cinque Stelle, poi si lamenta perché Csm e Anm non lo hanno difeso dagli attacchi: «Silenzio assordante».

Le argomentazioni giuridiche dell'esperto di diritto si intrecciano con quelle storico-politiche del professor Lupo, anche lui intellettuale di sinistra, che cerca di andare oltre la constatazione che la trattativa tra Stato e mafia c'è sempre stata. «La storiografia deve spiegare come le cose sono cambiate», dice. E i fatti per lo studioso raccontano quello che la politica e la magistratura sembrano ignorare: cioè che la strategia stragista dalla mafia è stata sconfitta e che non ci fu nessuna trattativa perché dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino le istituzioni reagirono. Lupo sostiene di non capire «quale contributo Cosa Nostra potesse portare alla nuova politica berlusconiana con la sua strategia della tensione.

«Le sue vittorie - osserva - sono state determinate dalla formidabile spinta di un'opinione pubblica convinta di doversi liberare dalla partitocrazia catto-comunista fiduciosa che finalmente il grande imprenditore avrebbe dato al Paese un governo del fare».

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