Cronache

Tribunale choc: uffici vuoti e faldoni spariti

Dopo le 12.30 non lavora più nessuno. Due anni fa uno stupratore la fece franca

Tribunale choc: uffici vuoti e faldoni spariti

Uno ascolta le spiegazioni del giudice Barelli Innocenti, lo vede commuoversi in diretta, lo ascolta spiegare alla famiglia di Stefano Leo che se il loro ragazzo è stato ammazzato senza motivo da un criminale che avrebbe dovuto stare in galera è tutta colpa della carenza di personale: e si immagina che due piani più sotto, nelle cancellerie della corte d'appello, chini sotto il peso delle pratiche, poche unità di uomini e donne lavorino senza sosta per cercare di salvare il salvabile, assicurando alla giustizia il maggior numero possibile di colpevoli.

Purtroppo non è così, non è proprio così. Non lo era alle undici del mattino, mentre il presidente della Corte parlava con i giornalisti; e lo era ancora meno un paio d'ore dopo, quando la pausa pranzo aveva ormai segnato il rompete le righe verso il weekend. D'altronde chi abbia provato un pomeriggio qualunque a entrare nel Palazzo di giustizia torinese - come in qualunque altro tribunale d'Italia - ha la percezione di essere in una sorta di deserto, lunghe teorie di porte chiuse, interrotte solo dagli uffici precettati per le urgenze. Orario di chiusura delle cancellerie: 12,30. La macchina della giustizia, questa è la verità, è una macchina che funziona a mezzo servizio. E l'eterna lagnanza sulla carenza di personale nasconde ritmi di lavoro - come dire - dal volto umano.

Se il fascicolo che doveva portare in carcere Said Mechaquat non è mai arrivato alla Procura, arenandosi su un tavolo della Corte d'appello, la colpa non può essere rifilata alla mancanza di personale. Qualche buco in organico negli uffici c'è di sicuro: ma si tratta di organici ampi, che dovrebbero essere in grado di supplire con la buona volontà dei singoli a qualche carenza. Anche perché sul capoluogo piemontese è caduta l'anno scorso, ancora sotto il governo Gentiloni, una massiccia infornata di personale. Poco prima, gli stesso uffici torinesi avevano potuto beneficiare di una robusta iniezione di «mobilità», l'afflusso di dipendenti da altre amministrazioni pubbliche in fase di dismissione come le province. Poi il ministro della Giustizia Orlando aveva mandato a Torino altre decine di assistenti giudiziari: e si trattava in questo caso di personale giovane, fresco di studi, dinamico. Ma a quel punto scoppiarono le polemiche tra i magistrati di vertice degli uffici torinesi: «ne avete mandati troppi in tribunale»; «ne avete mandati pochi in corte d'appello»; e via di questo passo, nel solito contesto per cui il prestigio di un dirigente dipende anche dalla quantità di risorse che riesce ad ottenere.

Il problema era - ed è tutt'ora - che la Corte d'appello torinese è recidiva: stavolta ha permesso a un colpevole di tornare a delinquere, due anni fa aveva consentito che uno stupratore la facesse franca. Il fascicolo del processo di secondo grado ad un violentatore di bambine si era perso anch'esso nelle cancellerie, proprio come si è smarrita ora la condanna di Mechaquat, e ne era riemerso solo quando il reato era ormai prescritto. Il ministro Orlando aveva chiesto pubblicamente scusa alle famiglie delle vittime, e aveva annunciato una ispezione negli uffici giudiziari torinesi - e in particolare alla Corte d'appello - perché si scoprisse come una mancanza di tale gravità fosse potuta avvenire.

L'esito della ispezione non è mai stato comunicato.

Ora si scopre che a Torino le cose sono andate sempre peggio.

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