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Tutti per Parigi, nessuno per i morti del jet russo

Quei morti, colpevoli di avere un passaporto russo, hanno suscitato una minore empatia

Tutti per Parigi, nessuno per i morti del jet russo

Il mio profilo Twitter è fermo al 13 novembre, me ne accorgo soltanto ora. All'indomani della carneficina francese non ho sillabato cinguettii virtuali, non ho postato una foto della Marianne lacrimante, non ho ritwittato il simbolo della pace con la torre Eiffel al centro, non ho rilanciato l'hashtag #PrayforParis. Mi sono astenuta. Non è stata una scelta deliberata ma un moto spontaneo e inconsapevole. Il tempo delle preghiere è terminato. Le parole sono esaurite. Rimane il dolore per le persone ingiustamente strappate alla loro esistenza dalla furia jihadista. Rimane il silenzio, rabbioso, per la nostra libertà definitivamente perduta, per le nostre vite irrimediabilmente cambiate. Fino a quando sopporteremo? Quanti fratelli e sorelle dovremo piangere prima che l'Europa si desti dal vile torpore? La scia di sangue è lunga.

Lo scorso 31 ottobre un aereo civile russo esplode nei cieli del Sinai. A bordo ci sono 224 persone uomini e donne, famiglie, bambini, professionisti e studenti che da Sharm-el-Sheikh si dirigono verso San Pietroburgo. C'è chi legge un libro, chi conversa con il vicino, chi ascolta la musica. All'improvviso un boato, non hai il tempo di prendere coscienza che sei risucchiato nel vuoto. È ormai certo che l'autore della strage sia il leader egiziano di una formazione islamica integralista attiva nel Sinai e legata all'Isis. Ammettiamolo: la strage aerea russa non ha suscitato un tripudio di solidarietà neppure paragonabile. Le manifestazioni di vicinanza a vittime e familiari sono state centellinate, su Twitter non è circolato l'hashtag #PrayforMoscow. Conta certamente l'ostilità verso lo zar Putin che governa la Russia con il pugno di ferro e contro l'Isis non si limita a dichiarazioni ma manda armi e truppe per fare la guerra.

Quei morti, colpevoli di avere un passaporto russo, hanno suscitato una minore empatia. Era forse la prima volta che contavamo i corpi carbonizzati dal jihad islamico? Nel 2004 piangiamo i 192 morti di Madrid, insieme a duemila feriti, dispersi su binari e treni regionali a seguito dello scoppio delle bombe jihadiste. L'anno dopo le bombe scoppiano a Londra: 52 pendolari restano uccisi in quattro attentati suicidi presso tre stazioni della metropolitana e su un autobus. Stati Uniti e Gran Bretagna, si dice allora, guidano la coalizione dei volenterosi in Irak e Afghanistan, in fondo se la sono cercata. Lo scorso anno un ex militare francese legato all'Isis uccide a colpi di kalashnikov quattro persone al museo ebraico di Bruxelles. Pochi mesi dopo, il parlamento del Canada è assediato, un soldato di guardia viene ucciso: ha solo 24 anni, è più giovane di Valeria Solesin, l'italiana che voleva abbracciare la vita crudelmente interrotta al Bataclan da una mitragliata alle spalle. All'inizio dell'anno assistiamo alla mattanza nella redazione di una rivista satirica colpevole di blasfemia. Il coro globale del «Je suis Charlie» è interrotto dalle pallottole di un commando armato che irrompe ad un convegno sulla libertà d'espressione a Copenaghen. La violenza nel nome di Allah colpisce poi un volo aereo colmo di turisti e, da ultimo, un teatro della movida parigina. Che cos'è se non un bollettino di guerra? Perdonateci se non abbiamo più lacrime, le parole scarseggiano, le marce simboliche ci risultano indigeste, la voglia di pregare si è dileguata e i tweet...

al diavolo i tweet.

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