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La vera paura dei magistrati: il divieto di fare consulenze

Altro che battaglia per le ferie, le toghe insorgono per il decreto Madia che vieta incarichi retribuiti dopo la pensione (abbassata a 70 anni)

La vera paura dei magistrati: il divieto di fare consulenze

Aspiranti stakanovisti a oltranza, altro che cacciatori di ferie. Dietro la protesta anti-Renzi della magistratura nostrana, andata in scena in tutta Italia in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, più che il «taglio» ai giorni di vacanza che spettano alle toghe potrebbero esserci le novità che riguardano i giudici introdotte dal governo con la conversione in legge del dl Madia sulla pubblica amministrazione.

In particolare, a seminare il panico e a scatenare la reazione della corporazione giudiziaria col «paravento» della polemica sul taglio delle ferie che fa «morire di lavoro» (come ha detto il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena), sono alcune norme che, al contrario, forzano centinaia di magistrati a levarsi la toga e girare i pollici, loro malgrado.

La prima è quella che costringe i giudici giunti all'età della pensione (scesa da 75 a 70 anni) a non poter più ricevere «incarichi di studio e di consulenza» nella pubblica amministrazione se non a titolo oneroso. Gli unici incarichi ancora consentiti per chi è in quiescenza sono quelli a titolo gratuito, ma anche qui la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile.

Il dl poi, occupandosi del «ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni», ha anche abrogato le norme che consentivano i «trattenimenti in servizio» dei dipendenti pubblici a far data dal 31 ottobre scorso. Qui l'esecutivo sembra aver avuto un occhio di riguardo per i magistrati, e ha previsto per loro una temporanea eccezione «al fine di salvaguardare la funzionalità degli uffici giudiziari» che permette alle toghe - purché già in possesso dei requisiti per restare in servizio al momento dell'entrata in vigore del decreto - una deroga di 14 mesi, fino al 31 dicembre prossimo. Di fatto, però, la riforma targata Madia vara una rottamazione di massa per un gran numero di magistrati - quattrocento a fine anno, un altro migliaio entro il 2018 - molti dei quali oggi occupano posizioni di vertice, e tra questi diversi che si sono distinti per le critiche contro l'esecutivo di Matteo Renzi.

Tra i nomi di chi si prepara a lasciare l'ufficio c'è lo stesso Maddalena, insieme a un'altra dozzina di procuratori generali dal nord al sud del Paese. Ma anche il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, e con lui una ventina di altri procuratori della Repubblica e una quindicina di presidenti di Corte d'Appello (tra i quali il milanese Giovanni Canzio), oltre a quasi tutti i vertici della Cassazione, compreso il giudice che due anni fa condannò definitivamente Berlusconi, Antonio Esposito. Insomma, un vero, radicale «ricambio generazionale» che spiazza le ambizioni di molti e spedisce in pensione buona parte dei protagonisti attuali del sistema giustizia italiano. Una rivoluzione che fa tremare l'Anm perché apre le porte a centinaia di giovani magistrati, e prevede giocoforza un turnover sulle poltrone che contano che cambierà, profondamente, equilibri «politici» e giochi di correnti.

Anche perché a guidare il delicatissimo quanto massiccio avvicendamento, gestendo la girandola di nomine, sarà il Consiglio superiore della magistratura. Al cui vertice dallo scorso settembre siede Giovanni Legnini, che fino all'autunno era stato sottosegretario all'Economia nel governo Renzi. E che lunedì, chiamato a dire la sua su Mix24 di Giovanni Minoli a proposito dello «scontro» tra Maddalena e il premier, si è schierato con quest'ultimo: «Giudico quella frase sbagliata, perché questo tema delle ferie è stato enfatizzato». Già. Il problema delle toghe, forse, non è ammazzarsi di lavoro.

Ma piuttosto essere costretti al riposo.

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