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Verdini, quando il traditore è tradito

L'ex azzurro escluso: chiedeva un "riconoscimento", cioè almeno due poltrone

Verdini, quando il traditore è tradito

Roma - Verdini dice no e il governo Gentiloni nasce già azzoppato. Ma la botta fenomenale l'hanno presa loro di Ala-Sc. Il colpo di scena avviene alle 6 della sera, mentre il nuovo premier presenta al Quirinale la lista dei ministri e, dopo un'incandescente riunione nel quartier generale di via Poli, Denis Verdini ed Enrico Zanetti annunciando che non appoggeranno l'esecutivo in fasce.

«In coerenza con un'azione - dice la nota - che in questi ultimi 17 mesi ha assicurato al Paese la governabilità e la realizzazione di importanti provvedimenti senza alcuna contropartita, non voteremo la fiducia a un governo che ci pare al momento intenzionato a mantenere uno status quo, che più dignitosamente sarebbe stato comprensibile con un governo Renzi-bis».

Finora Verdini è stato leale alla maggioranza renziana, la stessa riforma Boschi è stata approvata con i suoi voti e quelli dei tosiani. Ora si sente tradito, lui che dal centrodestra è ritenuto il Grande Traditore. Contro l'ingresso del suo gruppo nel governo hanno manovrato minoranza dem, Ncd, Fi. E sono loro ad aver vinto. Si sa che Verdini non voleva entrare in un governo flash, ma arrivare a fine legislatura, forse gli altri ora contano su questo perché non faccia cadere il governo.

Verdiniani e zanettiani, dicono i rumors, nelle ultime ore erano infuriati per non aver ottenuto le poltrone sperate. Avevano alzato la posta, per avere un «riconoscimento», come terza forza dell'esecutivo. Erano decisi ad uscire dal ruolo di alleati di serie B ed entrare nel consiglio dei ministri, magari facendo restringere la rappresentanza dei nemici-alleati centristi di Alfano. Contavano su due posti, almeno uno, senza accontentarsi di qualche sottosegretariato, convinti di essere l'ago della bilancia, il quid necessario a Palazzo Madama (hanno 18 senatori) per rendere solida la squadra Gentiloni. Circolavano da giorni i nomi dei candidati, da Zanetti, che doveva essere promosso a viceministro all'Economia, a Saverio Romano e Marcello Pera.

E invece no, l'operazione non è riuscita. Gentiloni e dietro di lui Matteo Renzi sono stati più ostici del previsto, Verdini s'è intestardito, Zanetti è stato sommerso dalla delusione. Fuori, allora, senza essere mai davvero entrati.

Ma la mossa, poi, andava «vestita» con motivazioni alte. E i leader hanno spiegato che al presidente della Repubblica e al premier incaricato avevano offerto «disponibilità» e «senso di responsabilità», sicuri che il Paese abbia bisogno di un «governo nella pienezza delle sue funzioni, sufficientemente forte per far fronte alle immediate emergenze economiche ed internazionali legate al ruolo del nostro Paese, e alla imprescindibile necessità di una legge elettorale». Legge da fare in parlamento, senza farsela dettare solo dalla Consulta, per «assicurare il giusto equilibrio tra rappresentanza e governabilità, senza rinunciare, in nome di pasticciate maggioranze, a quest'ultimo principio». A tutto questo Gentiloni non avrebbe dato «alcun riscontro». Verdini e Zanettini concludono con una stoccata: «Al contrario apprendiamo la seria possibilità che venga varato un governo fotocopia, senza alcun approfondimento sulle questioni in campo».

Al di là delle nobili parole, ora, la minaccia a Gentiloni è chiara: al Senato rischiate grosso. Almeno sulla carta, però, la maggioranza varia tra i 160 e 170 voti e Paolo Naccarato di Grandi Autonomie e libertà assicura: «Nessun problema, anche senza di loro».

Ma certo, bisognerà schivare ogni giorno un agguato.

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