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Per vincere non conta essere una donna

La sua fortuna Hillary Clinton la deve di nuovo a un uomo, Donald Trump. Se gli elettori americani la sceglieranno come presidente degli Stati Uniti, sarà perché riterranno inadeguato l'avversario

Per vincere non conta essere una donna

La sua fortuna Hillary Clinton la deve di nuovo a un uomo, «the Donald». Se gli elettori americani la sceglieranno come presidente degli Stati Uniti, sarà perché riterranno inadeguato l'avversario. Poco importa l'esser donna, le ciarle femministe e gli endorsement di Lena Dunham e Gloria Steinem. Le donne non votano le altre donne per il senso d'appartenenza al medesimo genere. Potere e establishment è il binomio rassicurante del clintonismo, tanto più indispensabile se l'alternativa si chiama Donald Trump. Eppure, vista la diffusa insistenza sull'inedito storico della «prima presidente donna degli Stati uniti d'America», in molti s'illudono che basti agitare la patente della correttezza di genere per ottenere la vittoria. Questo sì che è un gender bias, un pregiudizio di genere.

La donna, come l'uomo, può compiere pregevoli imprese e disastri inauditi, è una verità elementare. Né si può ritenere, a rigor di logica, che le donne siano preordinate a curare gli interessi delle donne, i neri quelli dei neri, i gialli quelli dei gialli... Se gli americani voteranno a maggioranza Hillary, sarà perché, nel confronto con l'eccentrico e imprevedibile avversario, il binomio già menzionato, potere e establishment, appare, tutto sommato, il meno peggio. L'esser donna non c'entra, al contrario la carta femminile si rivolta contro Hillary. A 68 anni bisognerebbe far pace con la propria storia. Non è mistero che la competente signorina Rodham, laureata alla Yale Law School, abbia costruito una brillante carriera su quella del marito, una coppia di potere la loro che resiste dal 1975, nonostante le cotte e i tormenti di lui, le Lewinsky e lo sputtanamento globale.

I Clinton sono potere e establishment. Parlando di «Clinton contamination», l'editorialista del New York Times, Maureen Dowd, ha scritto: «Se fosse ancora al dipartimento di stato, sarebbe stata licenziata per il suo comportamento estremamente negligente, parola del direttore dell'Fbi. Invece si avvia a ottenere una grande promozione». Il riferimento è al mailgate: Hillary dapprima si è difesa negando di avere fatto circolare nella propria posta privata informazioni riservate, poi il Dipartimento di stato ha dovuto ammettere l'esistenza di almeno 22mila email con contenuti «classified», alla fine l'Fbi l'ha parzialmente assolta (negligenza ma nessuna incriminazione). Come se non bastasse, nei giorni caldi dell'inchiesta il marito Bill si è presentato, a sorpresa, sull'aereo del ministro della giustizia. Cose che solo i Clinton possono permettersi. Chi considera il cinismo in politica una virtù e non un difetto, non si scandalizzerà per il sostegno all'altra metà della mela. Prima lui, ora lei. Gli Stati uniti non sono un atollo dell'Atlantico, ci sono i codici nucleari e un esercito da comandare. «Mi fido solo di Hillary», ha scandito tra gli applausi l'unica leader donna emersa in questa campagna, Michelle Obama. Tanto la first lady è magnetica quanto Hillary appare burocratica. La carta femminile le si rivolta ancora contro per il trattamento che le sue massime supporter riservano a una donna di nome Melania Trump, la «bonona» sposata al «riccone», bersaglio di attacchi scomposti e financo volgari per il sol fatto di aver scelto di restare accanto all'uomo che ama. Il tentativo di umanizzare l'algida Hillary è evidente, l'esito incerto. Il suo racconto personale manca di autenticità.

Le foto su Instagram che restituiscono al mondo il quadro di una famigliola felice, il ricordo di mamma Dorothy e della prima volta che la nipotina Charlotte ha detto «nonna»...

tutto molto commovente, tante donne, per carità, ma chi ci crede? Se Hillary vincerà, dovrà dire grazie a un uomo, «the Donald».

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