Stile

Con polpo, patata e caffè il talento si sposa alla Puglia

Cucina di ricerca per Stefano Di Gennaro, in ogni piatto c'è una sintesi della regione fra grano arso e caciocavallo

Camillo Langone«Mehr Licht!», più luce, furono le ultime parole di Goethe. «Dove sono le finestre?» sono state le prime parole dell'Incontentabile entrato al Quintessenza. Il disappunto è presto spiegato: a pranzo, essendo cristiano e non vampiro, il più insofferente dei critici gastronomici vorrebbe usufruire della luce di Cristo, a maggior ragione in una giornata di sole e all'interno di un locale che si definisce «ristorante mediterraneo». Ma anche la sorpresa: trovandosi la sala a piano terra non si capisce perché puntare sull'effetto bunker, simile a quello del tetro ristorante sotterraneo di Carlo Cracco. Per fortuna il servizio non è gelido e l'ambizione (che è nel nome, nei testi del sito internet e nello stile di cucina) non si traduce in presunzione insopportabile. Al contrario sono certi clienti a presumere di potere tutto, ad esempio la signora seduta al tavolo vicino che, senza mai smettere di scattare selfie, riesce a ordinare per sé e i suoi due figli tre primi diversi di cui due fuori carta. Va bene che il cliente ha sempre ragione e lo chef sempre torto, ma bisognerebbe pure ragionare: se in un ristorante si mangia benissimo anche con meno di cinquanta euri è ovvio che i ranghi in cucina sono ridotti, e se i ranghi in cucina sono ridotti e la sala è piena è ovvio che ordinazioni capricciose rischiano di produrre ingorghi e maledizioni ai fornelli. Ma al Quintessenza da questo punto di vista fanno miracoli e nonostante le tavolate complicate i piatti escono tutti coi tempi giusti, le temperature giuste, le cotture giuste, e non sono piatti semplici, anzi, perché quella di Stefano Di Gennaro è una cucina di ricerca con molte variabili da governare. Per giunta questo giovane cuoco non vanta il solito curriculum di ristoranti stellati: diplomato all'istituto alberghiero, che visto il livello degli alberghieri è quasi come dire autodidatta, ha lavorato per poche stagioni in anonime strutture turistiche e subito dopo ha aperto il suo ristorante (suo e dei tre fratelli, due in sala e uno ad aiutarlo in cucina, siccome per aprire un ristorante di livello o hai molti soldi da spendere o hai molti famigliari da coinvolgere). Al talento e non alla scuola è pertanto da ascrivere un piatto come polpo, patata e caffé, in cui il sovente ostinato mollusco viene piegato alle ragioni dell'eleganza. Al talento sommato al territorio (la Puglia bifronte dell'Adriatico e della Murgia) sono dovute le orecchiette di grano arso, broccoli, vongole, calamaro e caciocavallo podolico: quando leggi resti perplesso, per la sovrabbondanza di ingredienti, quando mangi resti ammirato, per la capacità di racchiudere la più gustosa sintesi della regione. Al talento, al territorio e a una tecnica sopraffina va ricondotta la zuppa di fagioli con funghi cardoncelli e tubettini soffiati, pasta piccola resa croccante con un procedimento laborioso che Di Gennaro è gentilmente disposto a spiegare ma che nessun cuoco della domenica deve sognarsi di replicare. La sella di agnello con mela annurca è meno memorabile mentre sulla «colazione del contadino» (siamo già ai dolci) l'Incontentabile non si pronuncia per la stessa idiosincrasia verso gag e rivisitazioni ironiche che gli impedisce di tornare alle Calandre, dove in menù ci sono ancora piatti intitolati «fu...mare», «dolce far niente», «gioco al cioccolato», senz'altro buonissimi ma linguisticamente oscillanti fra Settimana Enigmistica e Asilo Mariuccia. Meno spiritoso e più essenziale, anzi quintessenziale, è il caffè e zabaione ossia spuma bianca al caffè e crema allo zabaione che mette voglia di bis. Il bere: l'acqua è purtroppo Panna, con tutte le minerali della Lucania limitrofa, fra i vini si cade sul Primitivo di Gioia del Colle dell'azienda Fatalone che è un rosato biodinamico e pertanto ideologico e opaco (ma qui la colpa è dell'Incontentabile che ha voluto rischiare, la carta non mancava di alternative). Si recupera col Moscato di Trani di Franco Di Filippo, vino sconosciuto al mondo e snobbato nella stessa Trani dove nei locali si beve soprattutto spritz tanto per affossare l'economia cittadina. Curiose le acqueviti della Tenuta Verola di Carmiano (Lecce), la prima alle mandorle e perciò dolcissima, sorta di orzata liquorosa, la seconda alle carrube e quindi per colore, e non solo per colore, con qualcosa del brandy. Da riprovare. L'Incontentabile deve inoltre lamentarsi delle posate, difficili da maneggiare per colpa di un design nemico dell'uomo, e complimentarsi per i piatti invece amichevoli e tondi (i fratelli Di Gennaro hanno capito che i piatti quadrati sono ormai da pizzeria), e per le pareti impreziosite dall'eccellente pittore Pietro Capogrosso.

La musica non dà fastidio, diversamente da quella kitschissima e orientale che toccò ascoltare nella vicina Barletta al ristorante Bacco (a proposito: se Bacco ha appena preso una stella Michelin non si capisce perché Quintessenza non ne abbia appena prese due).

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