Roma

Via Poma, altro colpo di scena in aula

«A via Poma non ci sono mai stato. Non ho mai conosciuto il portiere di quello stabile Pietrino Vanacore. Quando ho detto il contrario era perché ero confuso, ero depresso». Così Mario Macinati, testimoniando nel corso del processo per la morte di Simonetta Cesaroni, la giovane trovata uccisa con 29 coltellate il 7 agosto 1990 nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventù in via Carlo Poma. Macinati entra nel processo in quanto «tuttofare» della casa in campagna a Tarano (Rieti) dell’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, già direttore dell’Aiag che assunse la Cesaroni, e indagato per false dichiarazioni proprio in merito alla circostanza di una sua presunta conoscenza di Vanacore.
Interrogato dai magistrati, infatti, Macinati in un’occasione disse di non aver mai visto il portiere, mentre in un’altra di aver bevuto con lui due caffè. Caffè che avrebbe, invece, preso con Salvatore Sibilia, dipendente dell’Aiag, all’ostello del Foro Italico. Nel corso poi di una conversazione in auto con il figlio Giuseppe (del 28 marzo 2008), oggetto di intercettazione ambientale ieri ascoltata in aula, l’uomo ha affermato di aver negato di conoscere Vanacore perché altrimenti Caracciolo si sarebbe arrabbiato.
Aspetto dimesso, zoppicando e con un forte accento reatino, il testimone-indagato ha risposto in un modo tutto suo e colorito alle domande del pm Ilaria Calò sul punto: «C’ho la devozione per la santissima trinità - ha detto - C’è qualcuno che ci guarda, ci giudica da lassù e ci castiga. Non scherziamo su certe cose, qui c’è una ragazza e la sua famiglia che aspetta giustizia. Io una bugia non la dico, se vuole arrestarmi mi arresti. Non ci sarebbe niente di male se dicessi di conoscere Vanacore, ma non voglio dire bugie. Avrei voluto fare un confronto con Vanacore ma Iddio l’ha portato via». Il teste ha quindi giurato di non aver mai conosciuto il portiere dello stabile di via Poma. Al «tuttofare» sono poi stati chiesti chiarimenti su due telefonate ricevute nella sua abitazione alle 20,30 e alle 23 la sera del delitto: «Rispose mia moglie. Uno che diceva essere degli ostelli della gioventù chiedeva di parlare con l’avvocato», ha detto. Caracciolo non aveva un telefono nella sua abitazione e aveva dato come riferimento il recapito del fattore che si trovava a 16 chilometri di distanza: «Quella gente degli ostelli chiamava spesso e spesso non dicevano il loro nome - ha riferito Macinati -. Riferii all’avvocato delle telefonate la mattina dopo. Mica ero obbligato ad andare subito da Caracciolo, mica faccio il postino io».
Da parte sua Caracciolo di Sarno ha dichiarato di non aver mai conosciuto la Cesaroni: «Non l’ho mai vista. Non ho mai neanche saputo di che sesso fosse la persona che veniva a sostituire il ragioniere che si era dimesso. Ho scelto di dimenticare questa storia. Ho scelto il silenzio.

Ricordo solo che mi rivolsi al magistrato per ottenere il dissequestro degli uffici, dove c’erano soldi, documenti e contabilità, per portare avanti il lavoro e garantire gli stipendi al personale».

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