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Di Ponziano azzarda «L’Open quest’anno lo vince un italiano»

«Volevo invitare Woods, ma ci ha chiesto 1,5 milioni di dollari»

Enrico Campana

Un piccolo grande Open dal battesimo avventuroso sui green dell'Alpino, la montagna che domina Stresa, quando nel 1925, ai tempi dei pantaloni alla zuava, l'emigrante Pasquali riuscì ad avere la meglio su un manipolo disperso nella tormenta.
Un piccolo grande Open che nelle 62 edizioni ha premiato i colori italiani in 5 altre occasioni ('48 Aldo Casera, '50 e '54 Ugo Grappasonni, 1976 Baldovino Dassù, 1980 Stefano Mannelli), e che nell'ultimo terribile quarto di secolo ci ha regalato un digiuno umiliante e - peggio - ingiusto in quanto dalla pattuglia degli ex caddies spuntava un certo Rocca Costantino, camuno dai polsi di ferro che sfiorava addirittura il British Open guadagnandosi la prestigiosa casacca europea della Ryder Cup, e si rodeva il fegato anche Emanuele Canonica pur essendosi fatto la fama nel tour di «mister Cannonball» per saper sparare col suo drive missili terra-aria di 400 metri.
Un piccolo grande Open che ha reso omaggio a grandi assi del golf, nel '36 a Harry Cotton, nel 1988 Greg Norman, ma per sua natura dispettoso proprio come lo sono i «piccoletti», vedi le tre sfortunate campagne italiane di un certo Severiano Ballesteros, uno che un posto nell'Olimpo del golf se l'è guadagnato.
Si alza il sipario, venerdì prossimo a Milano, in casa Telecom, lo sponsor o il meglio vettore delle ultime 5 edizioni, dell'Italian Open che pur avendo aumentato di 400 mila euro, quasi la metà, il monte-premi, continuerà a essere considerata alla stregua di un personaggio in cerca d'autore, la metafora di un successo pieno, globale, una gara epica che alla fine vede trionfare il mito del golf.
«Si tratta - replica Donato Di Ponziano - di un'etichetta che l'Open si porta dietro da sempre, si tratta di un retaggio culturale sbagliato del nostro sport. Il campione, certo, è la ciliegina sulla torta. Chi non vorrebbe il grande nome!... Ma la grande attrazione è la gara in sé, l'ambiente, l'organizzazione col suo stile, il campo. Questo ti porta ad avere visibilità internazionale, la nostra gara è teletrasmessa in tutto il mondo grazie a oltre 20 emittenti, scusate se è poco. L'Open è cresciuto parecchio, e non solo per i 400 mila euro in più. Perdeva 2 miliardi di vecchie lire, l'anno scorso ha chiuso con un piccolo attivo, subito reinvestito».
Al quarto anno della sua gestione come presidente del Comitato Organizzatore, Donato Di Ponziano presenta i fatti anziché rincorrere le meteore. Tecnico e studioso del golf, grazie alla fiducia della Federazione che ha deciso di utilizzare le sue risorse anziché ricorrere al promoter di lusso si è riconvertito prontamente nel manager del rilancio.
«Voglio sottolineare - aggiunge - altre due cose, che ogni anno dobbiamo trovare un budget di 3 milioni di euro, traguardo raggiunto, in un contesto non facile, brillantemente anche quest'anno con l'ingresso nella cordata, composta da una quindicina di sponsor, di altre aziende importanti».
Di Ponziano ha tante buone qualità, è determinato, ama il golf e lo conosce in ogni suo aspetto, riesce a coordinare uno staff di 400 persone fra collaboratori fissi e volontari. Non è privo di autoironia, e di autocritica. Ed è lui a tirare fuori dal suo armadio lo scheletro di Mark Calcavecchia, reclamizzato l'anno scorso come superstar e rivelatosi uno sfacciato paisà.
«È venuto in Italia con l'obiettivo di sposarsi, invece di garantire il massimo impegno. Si può giocare male, ma l'impegno deve esserci. Mi ha deluso, gliel'ho detto, così anche ai signori della Pga americana. Per fortuna, almeno, l'operazione non è ci è costata moltissimo».
Di Ponziano adesso si è fatto più prudente, non rinuncia a inseguire la superstar con un discorso ferreo di clausole e paletti, ma preferisce un «field» omogeneo, agguerrito, in crescita.
«Se invitassi Severiano Ballesteros, l'Open avrebbe audience ma il suo gioco non sarebbe più quello degli anni d'oro. Quest'anno vedremo in campo tutti i migliori giocatori del tour europeo, con 18 vincitori di almeno una gara nel 2005. Gli inviti sono un investimento aleatorio e troppo costoso, almeno per il nostro budget. John Daly non è una superstar, eppure vuole 300 mila dollari»
Tiger Woods, ovviamente, sarebbe un discorso a sé. Di Ponziano ci ha provato. «Ci ha chiesto 1,5 milioni di dollari, una cifra spropositata. Togliamoci dalla mente che si muova fuori dagli Stati Uniti, se non per ragioni di sponsor».
«Chi gestisce un Open in crescita come il nostro, ha il dovere di non lasciare nulla di intentato. Sono stato mosso dalla curiosità, e per capire se un domani può aprirsi un simile scenario. Il discorso si è spostato dai soldi alle nostre grandi prerogative, che sugli americani hanno sempre presa. Le bellezze del nostro paese, il papa e la Ferrari...».
«Purtroppo - ridacchia divertito Di Ponziano - la trattativa è caduta perché ha un contratto con la Buick, e non può guidare una Ferrari».
Dal Castello di Tolcinasco parte dal 4 al 7 maggio un nuovo ciclo dell'Open, e Di Ponziano mette sul tavolo i suoi sogni.
«Un budget di almeno 5 milioni di euro, il doppio di quello di oggi, la Tv in chiaro senza offendere Sky, che ci offre un apporto formidabile, e infine un italiano in grado di battere gli europei «In questo Open - ammonisce, spronando al “carpe diem” le 4 punte azzurre, Rocca, Canonica, Dodo e Francesco Molinari - l'ultima cosa è la più auspicabile, la più importante. 25 anni d'attesa sono troppi, la vittoria di un italiano farebbe impennare l'attenzione. Potrebbe essere davvero la volta buona».


encampana@inwind.it

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