Cultura e Spettacoli

Le prigioni comuniste peggio dei film horror

L'obiettivo era cancellare ogni forma d'identità per costruire l'uomo nuovo. Con torture che vanno oltre le fantasie di un sadico

Le prigioni comuniste peggio dei film horror

da Sighetu Marmatiei (Romania)

«I l mattino, quando suonava la sveglia, dovevamo saltare in fretta e furia in pantaloni negli scarponi. Credo avessimo al massimo 10 secondi per questo. Dopo, prima che il piantone ci potesse colpire, eravamo già con la mano sullo straccio ed iniziavamo a lucidare in cerchio, uno dopo l'altro, noi, quelli dell'isolamento. (...). Aspettavamo così che ci venisse portata la sbobba del mattino. All'arrivo della tinozza con la sbobba, dovevamo entrare tutti con il ventre sotto il letto che era abbastanza basso. La posizione era “steso sul ventre” con le mani sulle spalle ed il capo sollevato perché ci fosse introdotta sotto il mento la sbobba calda. Ad un segnale, dovevamo mettere il viso sulla sbobba che ci scottava e consumarla velocemente. Non ci era concesso di usare le mani, che dovevano rimanere dietro. (...). Ad un altro segnale, dovevamo terminare. Alla domanda “è buona la sbobba?” dovevamo rispondere “gru”, imitando il grugnito dei porci. Eravamo considerati porci, perché non davamo segni d'attaccamento nei confronti della rieducazione».

A scrivere una delle pochissime testimonianze di ciò che avvenne nel carcere di Pitesti, in Romania, nell'omonima cittadina ad una manciata di km da Bucarest, è Aurel Visovan (1926-2002), uno dei rari superstiti dell'operazione che lo storico Stéphane Courtois, direttore della ricerca presso il Centre Nationale de la Recherche Scientifique a Parigi, ha definito di «ingegneria psicologica» per «trasformare coloro che sono nazionalisti o cristiani, in uomini nuovi» (fonte: thegenocideofthesouls.org). Visovan è riuscito a testimoniare la sua esperienza di «rieducazione» nel carcere di Pitesti nel volume dal titolo Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato , testo miracolosamente disponibile in italiano per l'ardita operazione del frate Costantin Eugen Anghel che, conoscendo la nostra lingua, ha deciso di tradurlo. Io ne sono entrata in possesso lo scorso agosto non certo in Italia, ma a Sighetu Marmatiei, in Maramures (regione nel nord della Romania al confine con l'Ucraina), grazie alla guida del museo Memoriale delle Vittime del Comunismo e della Resistenza (memorialsighet.ro) che sorge proprio laddove si trovava il carcere di Sighet, altro luogo di reclusione per chi non la pensava in accordo con il regime.

Il carcere di Pitesti è stato raso al suolo, esiste solo un monumento che lo ricorda nell'area in cui si trovava. Nel periodo comunista in Romania, 1945-89, sono esistiti oltre 230 luoghi di detenzione tra carceri, lager di lavoro forzato e di deportazione e luoghi di interrogatorio. Più 15 ospedali di tipo psichiatrico per la «rieducazione» dei detenuti, soprattutto politici, e i luoghi di esecuzione, di combattimento tra partigiani e la Securitate (o DGSP-Direzione Generale per la Sicurezza del Paese), oltre alle fosse comuni, più di 90. Per un totale di 600mila romeni arrestati e condannati tra il 1945 e il 1989. Arrivata a Sighet, ancor prima d'iniziare la visita, la giovane guida mi fa sapere dell'esistenza del volume di Aurel Visovan in italiano, e si preoccupa subito di andare a procurarmelo. In Romania, infatti, che il comunismo fosse un regime che operò cercando di distruggere l'individualità della persona per assoggettarla completamente e formare un «uomo nuovo», è ripetuto continuamente e, anzi, ho incontrato, nel mio viaggio, il desiderio di rivelarlo: non si può dire si pecchi di omertà, oggi.

Il carcere di Sighet fu costruito nel 1897 come prigione comune. Dal 1950 divenne il luogo di prigionia e tortura per l'élite colta della Romania: ex ministri, accademici, economisti, militari, storici, giornalisti e politici. Vivevano, anche anni, in stanzette da un metro per due. Un cubo di pietra contenente acqua e l'altro per i propri bisogni. Un letto e una piccola finestra in alto, per impedire la vista all'esterno, ma sempre aperta, senza vetri. E un trattamento del genere era considerato un lusso.

In ogni prigione, non solo a Sighet, infatti, si trovava anche una «cella nera», ovvero di punizione: i detenuti che non volevano assoggettarsi alle dinamiche persecutorie del carcere o che non volevano confessare le proprie «colpe», erano isolati in una cella buia, senza finestre, e incatenati a un anello al centro della stanzetta, nudi: per terra veniva versata dell'acqua in modo che avessero sempre i piedi bagnati, e il cibo era dimezzato. Se i detenuti nelle celle non d'isolamento potevano sdraiarsi solo al calare del sole, quelli in isolamento erano legati nudi al buio in piedi giorno e notte. Il fine era la perdita dell'identità dell'incarcerato e la sua rieducazione al comunismo. Ogni cella dell'ex carcere di Sighet, ora Museo, racchiude e approfondisce uno degli orrori del regime comunista, e non solo quello romeno (si parla infatti anche dei Gulag in Russia), e di altre realtà del periodo (come il sindacato polacco di Solidarnosc).

Uno spazio, una cella, è dedicata a Pitesti, il fenomeno che nemmeno Causescu volle riconoscere e di cui solo ora in Romania si parla apertamente (in Italia ne abbiamo avuto una testimonianza nel 2010 grazie a Dario Fertilio e al suo libro, Musica per lupi , Marsilio): tra il 1949 e il 1951 la maggior parte degli intellettuali, preti, diplomatici, militari e proprietari terrieri opposti al regime era già stata deportata in uno dei numerosi luoghi di reclusione o costretta ai lavori forzati. Restavano da annientare i giovani, tutti quelli che fossero sospettabili anche lontanamente di poter minare il Regime. Questi furono rinchiusi quindi a Pitesti, carcere sotto la direzione e il comando di Eugen Turcanu. Pitesti voleva essere un luogo di «esperimento rieducativo»: le crudeltà, qui, erano inenarrabili. Si trattò di una tortura psichica e fisica, di botte e di umiliazione continua per arrivare alla perdita di qualsiasi credo e fede, politica o religiosa. Lo scopo di Pitesti era annullare la persona, senza ucciderla: pugni, calci, violenze in ogni momento, in una tortura spinta fino al confine con la morte, ma restando in vita. I carcerati erano obbligati anche a «dormire» immobili, con il volto verso l'alto e le mani lungo il corpo: ogni mossa nel sonno veniva puntualmente rilevata e punita, con altri pugni, da chi faceva la guardia. Il fine era di creare un clima di sfiducia generale, anche tra gli stessi carcerati. L'unico modo per non essere picchiati, infatti, era confessare, durante i numerosissimi interrogatori che Turcanu in persona faceva ai carcerati, qualsiasi tipo di reato, proprio o di altri. Fino a creare una logica dell'auto-denigrazione o della condanna del prossimo, inventando anche falsità e portando ad una malata idea di solitudine tra tutti.

Quest'esperienza venne chiusa con un processo negli anni 1953-54, e ne resta solo il memoriale di Pitesti, nell'area in cui sorgeva la prigione (circondata ora da palazzi subito intorno al monumento): del carcere non vi è più alcuna traccia, eppure, almeno oggi, in Romania, tra le persone, la voglia di ricordare questo immane massacro sembra forte.

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