Politica

A Prodi basta il compleanno per far di nuovo paura al Pd

RomaDimenticato e anche un po’ mazziato. Immaginatevi la disperazione di Romano Prodi se, dopo essere riuscito ad ottenere il tanto sospirato incarico all’Onu per l’Africa, a settembre si ritrovasse tra le scatole, persino lì, il suo amico e carnefice Walter Veltroni. Immaginatevi Prodi che se ne va a fare il suo lavoro in uno sperduto villaggio africano, e ci trova il cineforum organizzato da Walter con Ettore Scola, la maratona Jfk, la serata Piano solo con il concerto in onore del jazzista suicida Luca Flores. Il rischio per ora sembra remoto, non tanto per l’Onu (che pare intenzionata a scritturare in pianta stabile il professore perché si dedichi al continente nero e alle sue guerre) ma per gli impegni letterari di Veltroni, che dal 27 sarà in tournée per la promozione del suo nuovo romanzo, Noi (Rizzoli), accantonando a tempo indeterminato l’autoprofezia caramellata dell’impegno volontario per l’Africa. (So che scrivendo del suo libro faccio una generosa pubblicità a Veltroni, ma so anche che, scrivendo della fregatura che ha dato ai bimbi di Korogocho, lui si incazza: così almeno i conti sono pari).
Oggi, però, non si può che parlare dell’amnesia che avvolge l’ex premier - del fu Mortadella - evocato solo per i suoi settant’anni, non dalla politica ma dai giornali. Prodi festeggiato dai media, ma nemo propheta in patria nel centrosinistra. Prodi ricordato in termine epici, come l’uomo che sconfisse Berlusconi, ma mai raccontato nella malinconia amara del suo crespucolo, assediato dal fuoco amico nel fortino di Palazzo Chigi. La sua fine iniziò ad essere percepibile, come sempre accade in politica, da un dettaglio minimo. Un dettaglio apparentemente casuale, ma in realtà frutto di una malizia ponderata ad arte: solo nel giorno dell’inaugurazione della nuova sede del Pd (il cosiddetto “Loft”) infatti, Prodi scoprì che nei leccatissimi locali che si preparavano a diventare il tempio dell’effimera (e breve) stagione veltroniana, una stanza per lui non c’era. Anzi, a ben vedere non c’era nemmeno una scrivania. Ed era a dir poco singolare, visto che di quel partito il presidente del Consiglio era il presidente, e nemmeno tanto onorario. Ebbene, le recenti celebrazioni per i settant’anni del Professore sono state in qualche modo il suggello di uno dei tanti paradossi del Pd, quello di avere un padre fondatore in contumacia, un padre nobile che non viene nemmeno citato, rimosso come i leader bolscevichi dissidenti dalle foto di gruppo storiche della rivoluzione d’Ottobre. Mi sono divertito molte volte provando a immaginare cosa passi per la mente di Prodi quando sente Veltroni che cita come fondatore del Pd il politologo Michele Salvati (qualcosa di acido e molto gastrico, immagino). E ho provato a ipotizzare che cosa deve aver pensato il giorno in cui, nel celebre discorso di Orvieto, l’ex sindaco di Roma mandò in pezzi la sua Unione con l’ormai celebre dichiarazione di «autosufficienza», e con quella meravigliosa locuzione, «vocazione maggioritaria», con cui si liquidavano i sostenitori del governo del Professore. Su quel crepuscolo da leader assediato a Palazzo Chigi ha scritto un libro denso come un liquore e avvincente come un romanzo uno dei suoi ex collaboratori, Rodolfo Brancoli. Ma se era evidente che Prodi venisse rimosso e cancellato durante una campagna elettorale che si celebrava ribaldamente sulle sue spoglie politiche, è altrettanto incomprensibile capire perché mai ancora oggi Prodi sia un tabù, un buco nero, un rimpianto sussurrato a bocca stretta. C’è tutta la fragilità della sinistra italiana, a bene vedere, nella predestinazione che la attraversa, quella di divorare i suoi padri. Ai tempi del Pci i grandi vecchi invecchiavano al fianco dei giovani, talvolta bersagliandoli con i loro umori fumantini (vedi le memorabili stoccate di Giancarlo Pajetta su Berlinguer o del mitico Napoleone Colajanni, che paragonò Occhetto a Napoleone III), adesso diventano subito scomodi, e vengono pensionati bruscamente. Achille Occhetto è stato espulso dal Pds che ha lui stesso fondato, Sergio Garavini fu buttato fuori dalla sua Rifondazione, e persino Fausto Bertinotti non si capisce se abbia preso la tessera di Sinistra e libertà, Armando Cossutta è stato triturato dal suo Pdci, e per sfregio è arrivato a dare indicazione di voto per il Pd. C’è in questo gioco di santificazione prematura e rimozione frettolosa, il segno di un male oscuro.
La parabola di Prodi toccò il suo ultimo picco di felicità nell’estate del 2007, quando i media raccontarono la partenza per le vacanze, senza scorta, da solo, in una giornata di bollino nero, a bordo della sua Fiat Croma. Un prodologo di rango come Francesco Alberti, cronista del Corriere della Sera scrisse un divertentissimo articolo sulla «vacanza fantozziana» del premier, sul nuovo stile di vita. Con Prodi si celebrava il mito di un’etica spartana, la tuta da sci riciclata per sei anni, un leader frugale e tecnocratico. A divorare questa icona non fu il centrodestra ma il centrosinistra. E a innescare il suo declino non fu una sconfitta elettorale, ma il trionfo apparente delle primarie. L’Unione si aspettava un milione e mezzo di voti, alla fine arrivarono quasi quattro milioni di votanti. Molti. Anzi, troppi. Alla fine il piatto della leadership divenne ancora più appetibile. Il governo Prodi arrancava in Parlamento, perdeva consensi nelle amministrative, ma conservava un consistente patrimonio di consensi. Veniva fischiato nelle piazze e al Motor Show della sua Bologna, finiva impantanato nelle vicende del piano Telecom elaborato dal suo braccio destra Angelo Rovati, il Senato, con la maggioranza divenne un piccolo vietnam ulivista. I leader della coalizione iniziarono a convincersi che con un altro leader la spirale negativa si sarebbe potuta invertire. Persino Massimo D’Alema arrivò a convincersi che il suo storico avversario, Veltroni, avrebbe potuto rimettere in sesto la barca. Aveva detto «mai Veltroni leader finché sono in vita» ma con un colpo di timone salì sul colle capitolino per proporgli di prendere in mano il Pd. Tutti gli altri leader, compreso il povero Piero Fassino, ultimo ad essere informato, sottoscrisse quel patto che portava in sella il sindaco di Roma. È in quella piccola-grande congiura, in quel coro unanime, che risiede la spiegazione del silenzio di oggi. Nessuno si oppose, ed è questa cattiva coscienza che produce la rimozione. È una coda di paglia che guasta la festa, che rende terribilmente solitario «l’esilio» del professore. Certo, oggi Prodi punta all’Africa e sogna una riscossa al Quirinale. Ma sono, per l’appunto, dei sogni, e certo la sinistra non può tornare a vincere se non scioglie questo nodo. Se non mette in piazza i retroscena del complotto, non potrà assumere ruoli di leadership.

Africa esclusa, s’intende.

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