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Professor Immanuel e mister Kant: la doppia vita del filosofo

Professor Immanuel e mister Kant: la doppia vita del filosofo

Kant non sarebbe andato a letto tardi leggendo Kant. Per buona parte della sua vita, avrebbe preferito tirare le ore piccole destreggiandosi nelle feste della buona società prussiana. Come teorizzò esplicitamente a uno dei suoi allievi migliori, il futuro letterato Herder, «non si doveva stare tanto a meditare sui libri».
Questo filosofo godereccio e con tratti francamente libertini, l’Immanuel Kant che non piacerebbe a Eco, Zagrebelsky e tutti i chierici dell’intellighenzia neopuritana, quelli che lo hanno storpiato nel santino del professore chino sulle sue carte e schifiltoso verso i divertimenti prosaici della società, esiste davvero. Basta leggersi Kant. Una biografia, di Manfred Kuehn (il Mulino, pagg. 663, euro 60). Responsabile primo della caricatura è l’appiattimento della personalità di Kant scaturito dalla prima biografia, scritta subito dopo la sua scomparsa, nel 1804, scritta da tre amici. Ludwig Borowski, Reinhold Jachmann ed Ehregott Wasianski erano però soprattutto tre teologi affini al pietismo (una forma di radicalismo protestante), quindi parecchio interessati a ridurre allo stesso tempo l’impatto demolitorio della filosofia kantiana e la biografia vivace del suo autore.
«Fu a causa di questa caricatura - scrive Kuehn - che i romantici tedeschi giunsero a credere che si trattasse di un uomo che era solo pensiero e niente vita». Ed è qui che nasce anche il fondamento dell’equivoco odierno, che presenta Kant (1724-1804) come sinonimo di un’erudizione asociale. Invece, quelli che lo stesso filosofo definì «gli anni più piacevoli della sua vita», furono quelli da magister all’università di Königsberg. Kant a quel tempo passava da una festa all’altra, in compagnia di «ufficiali russi, banchieri di successo, ricchi commercianti, nobili e nobildonne». In particolare, era il favorito della contessa di Keyserlingk, che definì «l’ornamento del suo sesso» e che lo voleva sempre alla sua destra ai banchetti, nonostante il divario sociale. Ma intratteneva rapporti anche con altre donne, come Charlotte Amalie di Klingspor, che anni dopo gli scrisse ringraziandolo «per aver cercato d’istruirla con la piacevole conversazione», e a cui inviava poesie romantiche. Ovviamente, Kant dava una fondazione teorica della sua vita mondana: «è meglio essere matto nella moda che fuori dalla moda»; «le nostre virtù artificiali sono delle chimere, e i vizi hanno origine quando ciò che è nascosto viene visto come vizio»; fino a dire, con gran scorno degli appartati snob passati e presenti: «Le relazioni sociali sono ciò che dà veramente sapore alla vita e rende utili gli uomini degni. Se i dotti non sono adatti alla conversazione, ciò deriva dal disprezzo per la società, che è basato su una mancanza della conoscenza del mondo».
Un osservatore e un praticante del bel vivere, questo era allora Kant, e il ritratto che ne fa Herder lo chiarisce definitivamente: «Quanto vi è di grande e di bello nell’uomo, i caratteri degli uomini, i temperamenti, gli impulsi sessuali, le virtù e infine i caratteri nazionali, questo è il suo mondo». Il magister Kant teneva lezioni per gli alti ufficiali durante i banchetti in casa del generale Meyer, dove veniva condotto con una carrozza dell’esercito. Dopo questi simposi prolungati, «vi erano delle volte in cui non riuscivate a trovare l’imbocco della Magisterstrasse» per tornare a casa, a causa del troppo vino bevuto. Kant consumava «la maggior parte dei pranzi e delle cene in società», e quando non era così si fermava spesso da Gerlach, una sala da biliardo, sua passione perenne.
Quando non era biliardo, spesso era l’«hombre» (una sorta di complicatissima briscola), gioco di carte in cui era così abile da rimpinguare visibilmente i propri guadagni, e che elogiò persino in un suo corso di antropologia, perché «ci forma, ci rende imperturbabili, ci abitua a controllare le emozioni». Un habitué del bluff sociale, un goliardico consumatore dei piaceri della tavola, accorto bazzicatore del genere femminile. Questa era l’indole naturale di Kant, che a un certo punto regolò la sua vita per la salute malferma e, soprattutto, perché aveva intuito che con l’edificio della filosofia critica poteva rivoltare il pensiero occidentale. Come scrive Kuehn, la normalizzazione che Kant si impose dai cinquant’anni in poi, era «un modo di procedere nato dalla necessità, non dalla pigrizia». Non sarebbe mai andato a letto tardi leggendo se stesso. E, ancora vecchio, si presentava al visitatore come «il miglior compagnon, un vero bon vivant», che «gustava allo stesso modo il suo vecchio vino» e non diceva «una parola della sua filosofia».


Mentre altri oggi spendono parecchie parole a vanvera su di lui.

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