Politica

Quando basta un voto per tornare a casa

È già successo che il governo sia stato costretto a dimettersi per un solo no I precedenti di Moro, Cossiga e Spadolini

Nelle sue comunicazioni sulla politica estera rese ieri al Senato, Massimo D’Alema aveva lisciato per il verso giusto la sinistra radicale. Aveva sottolineato la discontinuità rispetto al governo Berlusconi. Aveva posto l’accento sul ripudio della guerra. Aveva ricordato il ritiro delle nostre truppe dall’Irak. Dulcis in fundo, aveva invitato la maggioranza a guardare più che al pelo nell’uovo, vale a dire all’innominata Vicenza, alla bontà della complessiva azione ministeriale. Ma tutto è stato inutile. Com’è stata inutile la formulazione della proposta di risoluzione presentata dai capigruppo dell’Ulivo, impregnata di un pacifismo senza se e senza ma. Così per due voti, 158 contro i 160 necessari, il governo è andato sotto e non poteva far finta di niente.
È vero, la Costituzione stabilisce che il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del governo non importa obbligo di dimissioni. I padri fondatori della suprema legge della Repubblica speravano così che non si verificassero più le crisi ministeriali a ripetizione del passato. Ma, com’è noto, fecero un buco nell’acqua. Un po’ perché le crisi extraparlamentari, che avrebbero dovuto rappresentare l’eccezione, divennero ben presto la regola. Un po’ perché esistono fior di precedenti di governi dimissionari per un voto di dissenso. Si dimette il primo gabinetto Moro il 26 giugno 1964 per il voto contrario della Camera sul capitolo del bilancio sulla pubblica istruzione. Moro si dimette poi una seconda volta il 22 gennaio 1966 perché la Camera respinge il disegno di legge governativo sulla scuola materna: un punto essenziale del programma di governo, come tiene a precisare il presidente del Consiglio il 3 marzo 1966. Ancora. Il 27 settembre 1980 si dimette il secondo governo Cossiga e il 7 agosto 1982 il primo gabinetto Spadolini per la bocciatura parlamentare di disegni di legge di conversione. Ma ciò che è successo ieri nell’aula di Palazzo Madama è senza ombra di dubbio ancora più grave. Perché non si è trattato di un voto contrario su un singolo aspetto dell’indirizzo politico ministeriale, come è accaduto nei casi sopra ricordati. No. Il Senato con un limpido voto ha respinto senza appello l’intera politica estera del governo, così com’è stata rappresentata in aula non da un Pinco Pallino qualsiasi ma dal vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Massimo D’Alema, uomo forte di una compagine ministeriale che paradossalmente ha fatto della propria debolezza il suo punto di forza.
Se per mera ipotesi Prodi non avesse avuto intenzione di fare fagotto e togliere il disturbo, ci avrebbe pensato D’Alema a far crollare rovinosamente a terra un castello di carte che si reggeva in piedi con lo sputo. Per due eccellenti motivi. Primo, perché chi ha perso la faccia al Senato è stato in prima persona proprio lui, D’Alema, che stavolta non è riuscito a incantare con la sua volpina dialettica l’illustre uditorio. Secondo, perché appena ieri l’altro il ministro degli Esteri aveva ammonito che se il Senato non avesse condiviso la politica estera del governo, il centrosinistra avrebbe dovuto prenderne atto e andarsene a casa. Dopo una simile Caporetto, per coerenza D’Alema avrebbe dovuto essere il primo a trarne le conseguenze.

Con il risultato di procurare con la propria caduta anche quella dell'intero gabinetto.

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