Quando i «fascisti» facevano comodo a Ds e Margherita

Pietro Mancini

La «Casa del fascio» che l’Unità accusa Silvio Berlusconi di aver aperto con l’accordo tra il centrodestra e la Mussolini, sdoganando i «peggiori fascisti», non doveva apparire così squallida e inospitale ai capi e ai luogotenenti del centrosinistra, nella primavera del 2005, alla vigilia delle regionali del Lazio. Tilgher e Fiore, che stavolta non saranno in lista, allora erano in campo, con tutti i loro detestati simboli nazifascisti. Eppure furono aiutati proprio dagli esponenti dell’Unione a raccogliere e a convalidare centinaia di firme, molte poi rivelatesi false e appartenenti a defunti. Sul quotidiano della Quercia, lo storico Tranfaglia ha tuonato contro il Cavaliere, ricordandogli che «gli italiani hanno da tempo ripudiato ogni rapporto con gruppi e persone che si richiamano ancora alle idee, ai metodi e agli obiettivi delle dittature fasciste del secolo scorso». Eppure, Massimo D’Alema non fu accusato, come oggi Berlusconi dall’Unità, di «assoluta disinvoltura nei rapporti con i peggiori residui dell’estremismo fascista», allorché si pronunciò a favore della riammissione della lista della nipote del Duce alle regionali: «Impedire a un avversario scomodo di presentarsi alle elezioni - tuonò l’ex premier - è una cosa che nei Paesi democratici non si deve fare!».
E mentre oggi Tranfaglia mitraglia il Cavaliere per l’alleanza con la Mussolini - applaudita spesso dalle donne prodiane sulle questioni sociali - soprattutto perché l’europarlamentare di Alternativa sociale considera (a differenza di Fini) suo nonno Benito il più grande statista del Novecento, meno di un anno fa, l’ex ministra dalemiana Livia Turco proclamava: «In democrazia, il diritto di partecipare alle elezioni non si può negare a nessuno, neppure se si chiama Mussolini!». E ancor più avanti negli elogi all’ex deputata finiana si spinse l’antagonista di Storace alla presidenza del Lazio, il veltroniano Piero Marrazzo, che la paragonò addirittura a Gandhi, esaltandone lo sciopero della fame intrapreso dopo l’esclusione della sua lista, poi riammessa e risultata decisiva per la sconfitta dell’esponente di Alleanza nazionale.
Sulla focosa pasionaria nera la pensava così anche Francesco Rutelli, che definì «legittima e rispettabile» la battaglia di Alternativa sociale. Guardandosi bene però, come Fassino, dal negare che sindaci e assessori comunali della Margherita e dei Ds avessero autenticato quelle firme.
In realtà, la grancassa mediatica grondante antifascismo (di maniera e molto datato) sugli impresentabili di destra è stata scatenata soprattutto per far dimenticare all’elettorato moderato il caso, ben più allarmante, del no-global Francesco Caruso, aspirante deputato, che non rinnega il passamontagna e le violente sprangate rifilate agli agenti e ai carabinieri. E soprattutto l’aberrante esternazione dell’ex candidato Marco Ferrando sul «sacrosanto diritto» degli indomiti resistenti iracheni di ammazzare i nostri soldati. Anche se non è molto chic, né politically correct accostare a Ferrando i neri Saya e Tilgher, avverte Liberazione, il giornale di Rifondazione comunista.

E meno male che Prodi ha indicato proprio in Bertinotti la più forte garanzia di stabilità per il governo dell’Unione, provocando il commento sarcastico, molto centrato, di un commentatore amico di Fassino, Giampaolo Pansa: «Il “parolaio rosso” sarà una garanzia per l’esecutivo prodiano? Certo, ma come il lupo messo a far la guardia alle pecore».

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