Cultura e Spettacoli

Quando l’artista ferma il tempo in un capolavoro

Attitudine alle grandi concezioni ideali. Passione profonda e ispirata. Secondo l’anonimo autore del Sublime, un trattato di retorica in greco del I sec., sono questi due gli inconfondibili ingredienti, le «fonti», del capolavoro, dell’opera letteraria (ma non solo) che si propone come pietra miliare nell’itinerario del genio umano. Prima di quel solitario portento in versi o in prosa (ma anche nel marmo della statua, nel colore del dipinto, nelle note della partitura, sullo schermo cinematografico) l’arte sembrava aver esaurito le frecce della sua faretra. Ma ecco il sublime scoccare di nuovo come un fulmine. È la nuova creazione. La palingenesi. La ruota dell’inventiva si scuote d’impeto, fino al prossimo incanto. E il sublime crea rapimento, estasi, nel pubblico che ne sa godere.
Nel miracoloso miscuglio, oltre a quelle due doti innate, fermentano anche requisiti tecnici: purezza di stile, armonia espressiva, i trucchi del mestiere. Ma quelli s’imparano sgobbando, sui banchi di scuola: se non sono agitati da passione e grandezza, condannano i mediocri, anche se di rango, alla seconda, alla terza fila. Una pagina arroventata di Platone si mangia l’intero grigiume del mestierante Lisia. Il solo Edipo re di Sofocle, con tutte le incongruenze e i paradossi, ridicolizza in blocco gli scartafacci di un travet del dramma, come Ione. Non di rado, questa saetta sulfurea e accecante del sublime conflagra in un’opera unica, prima e ultima di un autore in cui concentrazione e passione si fondono e si temprano nel crogiolo del lavoro definitivo.
La civiltà classica offre le forme esemplari. Tucidide, ateniese del V sec. a.C., ha in catalogo un libro solo, La guerra del Peloponneso, che lui stesso definisce, con affascinante superbia, «un tesoro per ogni tempo». Prima di quelle pagine folleggiavano i miti, tarocchi poetici travestiti da verità: dopo, impera la Storia, autentica, documentata, verificata e macinata al crivello della ragione. Tucidide denuda, sul tavolo anatomico, i meccanismi del potere, l’intreccio implacabile tra storia e politica.
Passiamo al teatro, altro campo in cui i Greci la fanno da inventori, da posatori di pietre miliari. Qui incontriamo Menandro, III sec. a.C. Uno specialista che trattò un genere solo: la commedia. Ma con un’intuizione geniale, sublime, che originò un format evergreen. Prima di lui, il palcoscenico era il terreno di battaglia tra dèi impietosi ed eroi tragici alle prese con problemi sempre più grandi di loro. Menandro ci dà una scena laica, quotidiana: sfinestra la casa di gente comune, e ci fa vedere, tra le quattro pareti, il bestiario umano. Insomma, un Grande Fratello in quell’Atene lontana, con urla e gemiti - che spettacolo sarebbe, senza? - ma, incredibile, neanche un’ombra di volgarità.
Policleto ci porta a parlare di arte. Era uno scultore, poco più giovane del famoso Fidia. Il suo personale «sublime» scoccò in un’opera sola (anche se molte altre uscirono dal suo scalpello di professionista), il Dorìforo, simulacro di un giovane atleta che regge una lancia. Perché è «miliare»? L’artista si concentrò, con passione, nel tentativo (riuscito) di eliminare il «troppo». Un corpo né troppo secco e spigoloso, né troppo rilassato e morbido: in una parola, perfetto. Esagerato, secondo i malevoli: quel fisico calcolato a forza di regolo, il «cànone» delle proporzioni, la bellezza catturata con la matematica candidavano lo statuario ragazzo all’irrealtà. Eppure, da allora, è il «modello», il manuale di ogni apprendista dell’arte.
Fra i latini, troviamo un «monomarca» come Lucrezio. Un solo poema, La natura, radicale, ultimativo. Vi ribolle l’ossessione passionale dell’infinito: nella scala grande, in quel suo cosmo orlato da muraglie in fiamme che sarebbero piaciute al replicante Roy di Blade Runner; nella scala minima, nell’atomo venerato come matrice di ogni reale. Dopo Lucrezio, difficile separare l’universo e la materia dalla sinfonia dei suoi versi. Varchiamo le epoche, allarghiamo lo sguardo ad altre imprese.
Le scoperte geografiche. Il pèriplo di Ferdinando Magellano (1519-1522) merita le stellette del «sublime». È un’opera unica, e non solo perché la morte del navigatore, isole Filippine, 1521, impedì la replica. Cercare per primo il passaggio a Sud-Ovest della costa africana per i reami delle spezie asiatiche esigeva passione d’ignoto e un pensiero grande come il globo intero, da scopritore principe di oceani, fiducioso nell’azzardo di una cartografia che ai più prudenti pareva da sogno, perché prometteva un varco del tutto ipotetico sotto il Rio de la Plata. Un passaggio, uno stretto. Ma per dove? Magellano siglò per sempre, con la sua firma, il mistero enorme svelato.
La storia dello sport non è avara di gesti titanici. Il fotofinish di Livio Berruti che si avventa ad angelo sul filo della vittoria, 200 metri piani, Olimpiadi di Roma, 1960, ne è esempio. Non per la prestazione: i suoi 20,5 secondi (record mondiale allora uguagliato) sembrano modesti, al confronto degli odierni 19,19 di Usain Bolt. Ma è il fatto che tutta la carriera sportiva dello studente torinese si concentrò in quell’attimo sfolgorante, irripetibile. Alle sue spalle, battuti, i velocisti alieni statunitensi. Nella sua falcata, un’Italia che decollava oltre le macerie. La purezza vertiginosa di quella curva in volo prese subito la forza, l’autorità del simbolo.
La «decima musa» è un altro poderoso serbatoio di titoli spartiacque. Il cinema è obbligato ad alimentarsi con le pietre miliari, pena il calo d’interesse e i crolli al botteghino. Ladri di biciclette di Vittorio de Sica mostrò di che melenso grondassero i telefoni bianchi. Con 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, la fantascienza di celluloide virò verso rotte spiritualmente molto più alte. Con il suo immenso Titanic, James Cameron ingranò la microstoria d’amore, il fulcro emozionale, nella catastrofe collettiva, dispiegando gli effetti speciali al servizio di una parabola che alludeva, secondo la sua filosofia, al naufragio di un intero mondo. Dopo Il Signore degli anelli e la saga di Harry Potter, vampiri a parte, il fantasy è a una svolta.

Secondo le attese, Avatar sarebbe il colpo di timone.

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