Controcultura

Quando l'arte si coltivava all'ombra dell'ideologia

Dal 1948 al 1989 quarant'anni di pittura cecoslovacca. In cui la sensibilità sposa il regime

Quando l'arte si coltivava all'ombra dell'ideologia

Una mostra insolita e originale nel Palazzo del Governatore a Parma consente alcune riflessioni sui rapporti fra avanguardia e realismo nella pittura del Novecento, anzi del secondo Novecento. Il campione è l'arte a Praga tra il 1948 e l'89, e il bel titolo è: «La forma della ideologia». La cura, anomala ed efficace, unisce due specialismi, quello di una esperta, Gloria Bianchino, e quella di due italiani, fratelli, collezionisti a Praga: Francesco Augusto e Ottaviano Maria Razetto.

L'esperienza degli artisti a Praga è illuminante perché mette a confronto due realtà, quella italiana e quella ceca, in un tempo che vede diverse reazioni estetiche al potere totalitario e, nella sostanza, all'arte di propaganda. In Italia il fascismo finisce, e l'esperienza dei pittori, anche realisti, come Guttuso, è antifascista e deve rappresentare un antagonismo, anche estetico, che ripudia l'illustrazione e la retorica, per indicare la strada maestra delle neoavanguardie che hanno il loro emblema nell'astrattismo. Negli stessi anni a Praga, tra varie primavere, il comunismo, abilitato in chiave antifascista in Italia, continua la sua dittatura che si esprime nell'arte attraverso la pittura di propaganda, con una ostinata e immarcescibile figurazione dentro la quale ogni artista esprime la propria distinta, e sempre autentica, personalità. Ma non c'è spazio per l'astrattismo unanimemente riprovato da fascismo e comunismo.

Proprio nel 1949 si tiene la prima mostra di arte italiana a Praga e a Brno su invito della rivista Blok, organizzata dall'«Alleanza della Cultura». In un articolo sull'Unità dell'11 giugno 1949, Corrado Maltese scrive che all'esposizione partecipa «la giovane pittura italiana che troverà il pubblico delle masse lavoratrici, con la loro volontà di conoscere, le loro esigenze, il loro modo realistico e positivo di criticare e di vedere». Espongono Menzio, Santomaso, Morlotti, Purificato, Mafai, Birolli, Pizzinato, Guttuso, Borgonzoni, Cassinari, Pirandello, Ziveri, Carlo Levi e altri prevalentemente estranei al realismo. Molti di loro avevano fatto la Resistenza. Nel comitato c'è Palma Bucarelli, direttore della Galleria Nazionale di Roma dal 1941, e curatrice nel 1948 della prima mostra di Arte Astratta in Italia; con lei sono Roberto Longhi, Emilio Sereni e Francesco Sapori. La mostra è sostenuta dai politici legati all'Unione Sovietica. L'introduzione al catalogo è di Corrado Maltese, critico d'arte de l'Unità, che tenta la conciliazione dialettica fra astrattismo e realismo. In mostra sono opere del primo Pizzinato, come Alta fornace, e Aratro meccanico del 1949, di Giulio Turcato, ancora legate all'esperienza del Fronte Nuovo delle Arti, e vi sono dipinti di Guttuso come Donne che lavorano la conserva del 1948.

Sempre nel 1949, Raffaele De Grada presenta «disegni degli artisti italiani più famosi»: Carrà, de Chirico, Morandi, Casorati, Campigli, e anche Marini, Manz, Sironi e naturalmente Guttuso. In grande maggioranza sono gli artisti, i critici e i giornalisti che, dalla mostra del 1948 alla mostra di Palazzo di Re Enzo a Bologna, si sono caratterizzati per una precisa attenzione al tema del realismo e dunque attenti a prendere le distanze da un'astrazione implicita e a evitare accuse di formalismo e di distanza dalla realtà. Scrive la Bianchino: «Infatti, nella mostra a Palazzo di Re Enzo a Bologna del 1948 nella quale aveva avuto una attiva parte il pittore Aldo Borgonzoni, si era manifestata una crisi precisa e una contraddizione all'interno degli artisti che si reputavano tutti realisti. La recensione-stroncatura di Palmiro Togliatti apparsa su Rinascita stigmatizzava proprio il dialogo con il Picasso del cubismo sintetico al quale erano improntate le opere dipinte nel segno del realismo da artisti certo comunisti come Guttuso, Pizzinato, Borgonzoni. Dunque, conviene chiedersi in che posizione si collocano gli artisti di sinistra che esponevano in Cecoslovacchia e quali censure preventive, certo autoimposte, essi dovevano avere subito. Quanto alla mostra di Raffaele De Grada su artisti più tradizionali e della generazione precedente quella dei giovani, essa non doveva porre problemi, trattandosi di opere figurative che non potevano destare scandalo».

Lo stesso tema a Praga è affrontato senza traumi da autentici maestri, retorici e spontanei in uno, che non illustrano ma esprimono sentimenti ed emozioni, con una verità spesso ignota ai «democratici» Guttuso e Pizzinato, come nei coerenti e multiformi racconti di vita di popolo di Jaromir Schor e di Adolf Zábransky, autore del ciclo «Tradizione rivoluzionaria dei nostri uomini» o nella fresca narrazione di vita contadina di Alena Cermakova. Tutto appare spontaneo e vero in una cifra stilistica mai forzata. Grande è la qualità di Martin Sladky o di Frantisek Klikar. E pur nella inevitabile necessità narrativa (si vede soprattutto in Schor, che ricorda il nostro Salvatore Fiume). Nell'ampia raccolta Razetto si distingue anche Vladimir Solta, la cui sintesi formale richiama Sironi. Al realismo spagnolo, analogamente vigente nei lunghi anni del franchismo, si può avvicinare l'opera di Vladimir Suchy, presente con la intensa Famiglia Zmeskal.

La mostra di Parma va in parallelo con la recente rievocazione del Premio Cremona, dove sono riemersi artisti dimenticati, perché legati al regime, ma che occorre guardare con occhi nuovi e liberi anche rispetto alla loro subordinazione al regime. Se c'è un carattere che la mostra sul Premio Cremona ha fatto emergere più di ogni altro, è quello che troviamo in gran parte dei pittori cechi: l'inevitabile, e se si vuole anche irresistibile, inattualità. E, anche all'interno di quell'inattualità, non tutto è uguale per motivi di interesse propagandistico, tanto da consentire alcune riscoperte - penso al solenne popolarismo di Pietro Gaudenzi come alla rustica oggettività di Cesare Maggi, quasi da Neorealismo prima del tempo, al domestico borghesismo di Mario Biazzi o al disincantato previatismo di Innocente Salvini - che sarebbe arbitrario ricacciare nell'oblio dal quale sono stati riscattati.

I regimi vanno, i pittori restano.

Così l'arte di regime può farsi arte di Stato.

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