Cultura e Spettacoli

Quando a Livorno c’erano più fratelli che compagni

C’era un tempo non lontano in cui Livorno, la Stalingrado più Stalingrado d’Italia, in grado di far apparire come un’amministrazione moderata la stessa proverbiale Sesto San Giovanni, inalberava, anziché falce e martello, squadra e compasso, simbolo universale della Massoneria. Non che l’istituzione facesse direttamente politica con tanto di liste elettorali, rispettosa in fondo degli Antichi doveri, la «carta costituzionale» della massoneria moderna che interdisce, durante le riunioni nei templi, le discussioni di politica e di religione. Piuttosto, le logge labroniche erano diventate, durante l’era prefascista, una sorta di crogiuolo ampiamente trasversale di amministratori e parlamentari del Belpaese. E così troviamo, accanto all’anarchico Jacopo Sgarallino, il deputato crispino Dario Cassutto, il sindaco liberale Rosolino Orlando e un altro primo cittadino di opposta fazione, Francesco Ardisson, a capo (siamo nel 1901) della prima giunta rossa.
Tanta presenza nasce da una storia lontana. Il grembiule, nella portuale e cosmopolita Livorno, era approdato precocemente, assieme a militari e commercianti inglesi, che avevano presto (forse già nel 1729 data la costituzione della prima Loggia) «iniziato» le belle teste di lingua italiana su e giù per la Toscana. Tra i primi, il leader della locale comunità ebraica, Josef Attias, sodale di Montesquieu e Ludovico Antonio Muratori, e il medico Antonio Cocchi, imbevuto di spiriti illuministi, autore di un trattato Contro il matrimonio che poté godere di vasta fama, seduti al fianco dell’ambasciatore britannico Horace Mann e al poeta Tommaso Crudeli.
A ripercorrere in lungo e in largo le ampie tracce della Massoneria a Livorno (il Mulino, pagg. 570, euro 38) un nutrito gruppo di studiosi, capitanati da quel Fulvio Conti che si conferma come il più autorevole storico della libera muratoria italiana. Conti fissa, nell’introduzione, alcuni «caratteri» della massoneria labronica (il precoce radicamento, il cosmopolitismo, il rapporto con l’associazionismo, le minoranze religiose) e la peculiarità che la rende un unicum nella Penisola: la sua sostanziale e ininterrotta continuità (nonostante le persecuzioni post-napoleoniche) che la intreccia con le associazioni segrete patriottiche e la salda con la sinistra postunitaria.
Quanto ai vari contributi, disposti cronologicamente, Filippo Sani si occupa degli esordi settecenteschi, Fabio Bertini della saldatura tra giacobinismo e Risorgimento, Alessandro Volpi del periodo postunitario, Donatella Cherubini, Liana Elda Funaro e Angelo Gaudio squadernano il periodo d’oro, tra Crispi e Giolitti, indagando anche il rapporto tra i liberi muratori, il cattolicesimo e le minoranze religiose, mentre Marco Di Giovanni si preoccupa di scandagliare le vicende massoniche tra Grande Guerra e ricostruzione repubblicana e le modalità con cui, dopo le persecuzioni fasciste e nonostante il regime di polizia, la presenza dei liberi muratori continuò a farsi sentire, sopita e sotterranea, magari attraverso le sopravvissute strutture associative, come la Società volontaria di soccorso e la Società per la cremazione.


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