Quei disordini senza colpevoli

Quei disordini senza colpevoli

Vittorio Mathieu

Ennesima ostruzione stradale e ferroviaria, questa volta in Val di Susa e con motivazione particolarmente abietta: impedire lo studio del terreno per preparare lo scavo di gallerie per l’alta velocità. Il pretesto ecologico era il peggiore di tutti: le comunicazioni in galleria salvano la montagna. Il pretesto sociale era il più falso: posto che sia preferibile superare le Alpi senza mezzi meccanici, come nel medioevo, i meno abbienti dovrebbero farlo a piedi, i più abbienti a dorso di mulo: la diseguaglianza sarebbe ben maggiore che tra prima e seconda classe in ferrovia.
Delle circostanze particolari ci ha parlato la cronaca: 900 agenti non sono stati autorizzati a trasportare i dimostranti in guardina; i sindaci non sono stati destituiti; le nuove ricerche hanno rischiato di aspettare quindici giorni. Non mi fermo su questi particolari. Voglio attirare l’attenzione sul problema generale, dell’intralcio volontario alla circolazione. È lo scopo preferito per «manifestare» qualcosa: si suppone, la bontà di una causa. Se così fosse, ma non è, la scelta del mezzo sarebbe pessima anche se la causa è buona. Nel periodo fascista le manifestazioni erano chiamate addirittura «dimostrazioni», e le organizzava il partito: dimostravano soltanto che il regime non era democratico.
Il mezzo, si badi, non è scelto a caso. È il mezzo più a buon mercato (supposto che «dimostri» qualcosa) per ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. Il traffico si intasa facilmente anche da solo: basta aggiungere pochissimo - un branco di «dimostranti» - perché non si riprenda più per ore. A un certo punto anche le ambulanze, i pompieri, la polizia non riescono più a farsi largo. A Roma pare che sia morto una volta in ambulanza l’assessore del comune al traffico, per l’impossibilità di raggiungere l’ospedale. Non dite «così s’osserva in lui lo contrappasso»: fu solo una lugubre «dimostrazione».
A fine Ottocento, per molto meno, la fascia tricolore se la metteva l’ufficiale e uno squillo di tromba annunziava la strage imminente. Nessuno si augura di tornare ai tempi di Bava Beccaris, anche perché tra i dimostranti può restare impigliato qualche passante incolpevole. Ma la situazione meriterebbe di essere esaminata attentamente, anzitutto in sede legislativa. Agli organizzatori andrebbero comminate pene gravissime, detentive e soprattutto, pecuniarie. Verso gli esecutori si dovrebbero usare i metodi spicci di quando ministro degli Interni era Scelba. È inutile mandare agenti antisommossa se gli ufficiali e gli alti gradi, fino al prefetto, temono di pregiudicare la propria carriera se fanno il loro dovere.
Si dirà che esagero; che i danni spesso si limitano alla perdita di qualche milione di euro; che nel giro di mezza giornata la circolazione torna normale. Ma nel caso della Val di Susa, se l’azione avesse successo, i danni per l’economia sarebbero incalcolabili e le ripercussioni internazionali spiacevolissime. E anche casi molto meno gravi (come la gazzarra contro la riforma dell’università a Roma), quand’anche nessuno subisca danni irreparabili alla persona, rimangono una violazione gravissima, verso milioni di persone, del diritto alla libertà e al lavoro. Se la circolazione si arrestasse in un corpo vivente, ci si accorgerebbe subito di quanto sia necessaria. Se si arresta nelle «arterie» della vita organizzata sembra che il danno sia meno grave solo perché gli effetti sono più lenti, ma l’attentato alla vita è analogo.

La legge, i giudici, il potere esecutivo hanno il dovere di cooperare a reprimerle.

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