Quei timidi segnali di disgelo fra Pechino e il Vaticano

Dopo la «Lettera ai cattolici cinesi» di Benedetto XVI, da Pechino è giunto un segnale difficile da decifrare. Il tema principale della lettera del Papa era il superamento dello scisma della Chiesa Patriottica, una Chiesa che da cinquant’anni è controllata dal regime e separata dalla Santa Sede. Benedetto XVI aveva offerto al regime cinese l’apertura di un dialogo su questioni delicate come il mandato dei vescovi clandestini fedeli a Roma e i rapporti fra il Vaticano e Taiwan, ma aveva anche ribadito che il principio per cui solo la Santa Sede può conferire ai vescovi il mandato non ammette deroghe, e che anche nella Cina che ha il record degli aborti e regola per legge il numero dei figli la Chiesa non rinuncerà a predicare sulla vita e sulla famiglia.
La lettera del Papa rilevava anche che una riconciliazione fra le due Chiese, Patriottica e clandestina, era di fatto già iniziata, e che la «grande maggioranza» dei vescovi «patriottici» nominati dal regime si era più o meno segretamente riconciliata con Roma facendosi riconsacrare da vescovi in comunione con il Papa. Una recente visita in Cina ha confermato a chi scrive che il clero e i cattolici cinesi, anche «patriottici», hanno accolto il messaggio pontificio con speranza ed entusiasmo.
Il 20 aprile di quest’anno è morto il vescovo «patriottico» di Pechino Michael Fu Tieshan, uno dei pochi irriducibili leali non solo al Partito ma anche all’eredità di Mao, ostile a ogni ipotesi di riconciliazione con Roma. Nella Chiesa Patriottica i vescovi sono eletti da rappresentanti del clero, delle suore e dei laici, ma la loro elezione deve essere confermata dal Collegio dei Vescovi Cattolici della Cina (che il Papa nella sua lettera ha denunciato come un simulacro di conferenza episcopale controllato dallo Stato). La Chiesa Patriottica ha atteso l’annunciata lettera del Papa prima di riunire, il 16 luglio, i 93 delegati che hanno eletto il nuovo vescovo di Pechino, la cui nomina deve essere ora confermata dal Collegio dei Vescovi, cioè - in pratica - dal governo. È stato eletto Joseph Li Shan, quarantenne parroco della chiesa di San Giuseppe, chiamata Dongtang, dove vanno a Messa i cattolici «patriottici» ricchi del centro della capitale. Qualche agenzia occidentale ha parlato di un candidato concordato con la Santa Sede, che non ha confermato. I vescovi australiani, di solito bene informati sulla Cina, invitano alla prudenza, e fanno notare che il neo-eletto vescovo è anche consigliere comunale di Pechino, una carica di solito riservata ai fedelissimi del partito. Ma è anche vero che i suoi fedeli descrivono Li Shan come un moderato lontano dagli estremismi dottrinali del defunto vescovo e piuttosto scettico sull’ideologia marxista.
Il segnale che Pechino manda a Roma è dunque ambiguo. La sua decifrazione potrà avvenire solo nei prossimi mesi, quando apertamente o discretamente Li Shan con ogni probabilità chiederà di farsi consacrare anche da vescovi fedeli alla Santa Sede. È troppo presto per dire che la nomina di Li Shan è un segnale positivo che il regime manda a Benedetto XVI.

Ma è certo che un delicato dialogo continua.

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