Cultura e Spettacoli

Quel balletto di Beria sul cadavere di Stalin

5 marzo 1956: il «Piccolo padre» muore nella dacia di Kuncevo. La lotta tra i gerarchi del partito per raccoglierne l’eredità mentre Togliatti continua a difendere la memoria del dittatore

Alla morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo del 1953, seguì uno dei periodi più drammatici della storia dell’Urss. Lo stesso evento della morte del dittatore è circondato da altri fatti oscuri e tragici. La conseguente lotta per la successione, di cui il «rapporto segreto» di Krusciov fu uno dei momenti più delicati, fu spietata e luttuosa.
Stalin si era sentito male alla fine del pranzo nella sua dacia di Kuncevo, nei pressi di Mosca, alle cinque del mattino dell’1 marzo. Benché fosse in condizioni pessime di salute, egli era stato in grado di presentarsi in pubblico fino alla fine. Il 27 febbraio aveva assistito ad una rappresentazione del Lago dei cigni al teatro Bolscioi in compagnia dei membri dei Politburo Beria, Malenkov, Bulganin e Krusciov. Una delle guardie del corpo, di nome Rybin, che lo teneva d’occhio attraverso uno spioncino, s’era accorto che il generalissimo aveva lavorato alla scrivania sino al mattino del giorno dopo, domenica. Quando, più tardi, la sua anziana domestica Matrena Petrovna era entrata nel suo appartamento, aveva capito che qualcosa non andava: Stalin era disteso sul pavimento e sembrava addormentato. Le altre guardie lo avevano sollevato e adagiato su un divano nella stanza accanto, convinti che egli fosse ubriaco. Verso mezzogiorno cominciarono a preoccuparsi e notarono che il corpo era freddo. Il vicecommissario della MVD, Lozgacev, aveva allora deciso di telefonare a Malenkov e, su sua disposizione, d’avvisare i medici, i quali giunsero tra le 8,30 e le 9 del mattino, presenti anche Krusciov e Beria, oltre a Bulganin.
Era così iniziato il grottesco balletto della morte di Stalin, del quale fu testimone e partecipe anche la figlia Svetlana. In poche stanze dell’appartamento erano riuniti dal destino i suoi successori in cerca di uno scontro decisivo o di un accordo che li ponesse, quella notte, in posizione privilegiata. Essi furono protagonisti e comprimari di un assurdo valzer, ispirato dalla reciproca paura. Fino a quando i quattro membri della massima dirigenza sovietica presenti nella stanza non furono certi della morte avvenuta e certificata da un medico, nessuno osò avvicinarsi a lui e toccarlo. Passarono così le prime dieci o dodici ore di attesa nervosa senza cure. In quei momenti, come riferisce Svetlana Allilueva, il più disteso sino all’ilarità era stato Beria, georgiano come Stalin, anzi il figlio della vicina regione dell’Abkazia, forse il più duro contendente del potente segretario del Comitato centrale, che era allora Krusciov.
Beria era anche noto come lo zar della bomba atomica perché incaricato dal 1945 del programma nucleare per conto del governo dei Soviet. E soprattutto era il capo della polizia, allora l’intoccabile NKGB, il Commissariato del popolo per la Sicurezza dello Stato, e Maresciallo dell’Urss. Era nota la sua predilezione per le giovani donne, anzi le ragazzine che attirava nella sua casa-prigione che ospitava nelle cantine le celle per detenuti. Egli, appena si rese conto che Stalin giaceva immobile sul pavimento, prese a danzargli sfrenatamente attorno urlando: «Il gatto è morto, siamo liberi». In quel preciso istante, accadde l’imprevedibile: Stalin alzò un braccio e con un occhio ammiccò. Presi dall’inquietudine e dal terrore, gli astanti si fecero silenziosi e guardinghi, improvvisamente raggelati. Nel silenzio, si vide Beria inginocchiarsi e abbracciare il corpo esanime del tiranno afferrandogli dolcemente le ginocchia e chiedere scusa con teneri accenti: «Piccolo padre, scusa ho sbagliato, sono colpevole». Poi il corpo del Segretario generale s’acquietò per sempre.
Allora cominciò una immorale discussione sulla divisione delle cariche. Beria propose Malenkov come presidente del Consiglio, non ritenendolo affatto pericoloso, visto che era notoriamente privo di acume politico e quindi facilmente soggiogabile. Krusciov fece delle accorte concessioni, ottenendo il piazzamento di alcune sue pedine come i protetti Breznev e Ignatov. Ciascuno agì per il proprio tornaconto e, insieme, nessuno fece quello dell’Unione Sovietica: si divisero le spoglie di Stalin. Beria, ritenendosi al coperto e rafforzato dall’accordo, confessò l’intenzione di prendere le distanze dalla politica di Stalin, soprattutto sul tema delle nazionalità: più volte sottolineò la natura multinazionale dello Stato sovietico ad enfatizzare la necessità di conservarne le diversità. Beria era infatti un singolare personaggio: poliziotto senza scrupoli e statista di tendenza innovatrice. Scrisse di lui la moglie, la bella Gegeckori, detta «Nino», che la natura del capo della polizia era davvero contraddittoria e ambigua: al massimo della soggezione a Stalin, despota onnipotente, corrispondeva una pratica non ortodossa e un burocratismo non di maniera.
Si confrontarono allora le due forze destabilizzanti, Beria e Krusciov. Il primo a soccombere, in circostanze romanzesche, fu Beria che aveva mire eccellenti. Recenti ricerche dell’Università americana di Princeton, principalmente della ricercatrice presso la Library of Congress di Washington, Amy Knight, hanno rivelato agghiaccianti particolari. Beria fu attirato con uno stratagemma nei corridoi del Cremlino, colpito a morte dal mitra corto del Maresciallo Georgij Konstantinovic Zukov, che lo aveva celato sotto le falde del cappotto, assistito dagli uomini di Krusciov, fra i quali il generale Moskalenko. Accadde il 26 giugno 1956.
Circolano anche altre versioni dell’accaduto. Ad una delegazione di socialisti francesi, nel settembre dello stesso anno, Krusciov personalmente rivelò che Beria era stato strangolato dai membri del Presidium nel corso di una colluttazione nella seduta di giugno. La stessa versione egli riferì ad una delegazione del Partito comunista italiano guidata da Giancarlo Pajetta, il quale me la comunicò esterrefatto. Diverse fonti giornalistiche hanno in seguito fornito l’informazione che Beria fosse stato processato in giugno con un’arbitraria procedura e fucilato. Recentemente, in un’intervista ad un giornale di Kiev, il figlio di Beria, Sergo, ha detto che il padre non era presente al processo e che al suo posto vi era una controfigura. Ultimo fra i grandi della nomenklatura del Komintern, Togliatti, da buon conservatore, continuò a difendere la memoria di Stalin.
Nel rapporto al Comitato centrale del Pci del 10 novembre 1961 egli disse: «I meriti che Stalin ebbe nessuno li nega, così come sarebbe assurdo negare la grandezza di ciò che la classe operaia e i popoli dell’Unione Sovietica riuscirono a realizzare quando Stalin era alla direzione del partito e dello Stato».

Egli non condivise mai il «Rapporto segreto» di Krusciov.

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