Quel finto angioletto di Sofri tace solo sulle sue colpe

Caro direttore, non puoi immaginare con quali profondi sospiri di soddisfazione ho commentato, mentre lo leggevo, il tuo coraggioso, impeccabile editoriale sugli ultimi farfugliamenti di Adriano Sofri sull’inizio degli anni di piombo. E su quelle che a suo avviso sarebbero le vere cause di quell’ignobile incipit. Ossia sulle colpe di uno Stato che egli continua imperterrito a rappresentarsi, secondo la rozza vulgata ideologica di quegli anni, come un organismo violento, repressivo, fazioso, sanguinario e criminale. Quando invece ormai tutti sanno, o dovrebbero sapere, che una memorabile inchiesta parlamentare ha permesso da un pezzo di accertare che in quegli oscurissimi anni la vera grande colpa dello Stato fu al contrario quella di non aver voluto permettere alle sue forze di stroncare subito, fin dall’inizio, il nascente terrorismo rosso debellando in fretta – come sulla base delle informazioni precocemente raccolte dai suoi più sagaci servitori sarebbe stato possibile fare un po’ prima che scoppiasse l’inferno – l’intera rete dei suoi covi.
Lasciami aggiungere, anzi, che le riserve che nutro sul personaggio Sofri sono forse anche più gravi delle tue. Sono più gravi perché, prescindendo completamente dalla questione della sua vera o supposta colpevolezza giuridica come vero o presunto mandante dell’assassinio del commissario Calabresi, hanno invece molto a che fare da un lato col potente contributo che egli a suo tempo diede, con le sue parole e le sue azioni, alla creazione, diciamo così, dello stile intellettuale e morale, nonché ovviamente politico, degli anni di piombo, e dall’altro con la sua manifesta incapacità di pronunciare una sola parola all’altezza dell’infamia degli eventi che le sue presuntuosissime ideuzze di angioletto di non si sa quale lotta continua contribuirono comunque, mandato o non mandato, a incoraggiare e giustificare.
Permettimi infine di aggiungere un codicillo sul caso di quel nostro simpatico collega che è il figliolo diventato giornalista del commissario Calabresi. Sarei troppo severo, petulante, intransigente, arido e forse anche un po’ cinico se mi arrischiassi a osservare che egli, essendo riuscito a infilarsi, a lavorare e a farsi onore nella redazione di Repubblica, ossia in un distintissimo club fondato, a lungo diretto e tuttora valorizzato dall’illuminato patrocinio di Eugenio Scalfari, ossia del grande barman che a suo tempo lanciò il famoso Cocktail degli Ottocento, così denominato dal numero dei bevitori che in quell’occasione, tracannando valorosamente quel leggendario drink, praticamente invocarono l’assassinio del suo papà, ha dimostrato di appartenere alla nobile famiglia di coloro nei quali la signorina Anna Freud, l’illustre figliola del dottor Sigmund, in un suo celebre studio psicoanalitico sui cosiddetti «meccanismi di difesa», riconobbe il potere di una passione da lei definita «identificazione con l’aggressore»?
guarini.r@virgilio.

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Caro Ruggero, come avrai capito leggendo il mio editoriale, su Sofri la pensiamo allo stesso modo, su Mario Calabresi no.
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