Quel leghismo di sinistra dietro il popolo dei «No»

Uno spettro s’aggira per il mondo progressista: sta per caso nascendo un leghismo di sinistra, a sinistra? Dopo la mobilitazione a Vicenza e le proteste in Val di Susa contro la Tav l’interrogativo s’insinua nel dibattito in corso sul Partito democratico che ancora non c’è, e in quello sul partito dei Ds che già si sente male. Ma sulla prospettiva del Pd ora s’addensano anche le nubi del dissenso locale o comunitario che dir si voglia; quel popolo progressista in marcia contro le decisioni e le indecisioni del governo di centrosinistra, coniugando al radicalismo internazionalista l’inedita difesa del cortile di casa; inedita per una sinistra che aveva finora considerato la salvaguardia del particulare con fastidio, quasi si trattasse sempre e solamente della moderna espressione di vetero-campanilismo. Insomma, gli assertori del continuo e inarrestabile progresso, i teorici della globalizzazione dal volto umano mal si trovavano a fare i conti con questo «qualunquismo di ritorno», come lo chiamavano con snobistico disprezzo. Né ebbe molta fortuna, ai tempi, la battuta di Massimo D’Alema sulla Lega come costola della sinistra, liquidata per quel che appariva, e in fondo era: un modo furbetto per attirarla il più possibile nell’orbita progressista. E tuttavia nessuno si pose seriamente il quesito se esistesse una via di sinistra all’autonomismo. Pochi s’avventurarono sulla strada del municipalismo nel timore di dover incrociare proprio quell’aborrito qualunquismo che invece ora rispunta e prende di mira, da sinistra, la maggioranza «nazionale» del centrosinistra.
Ma la tenaglia fra radicalismo anti-globale e localismo anti-governativo rischia di schiacciare il riformismo, ossia l’unica risposta progressista in grado di interpretare una politica per la patria e per la piccola patria; il solo esperimento che l’attuale sinistra d’Italia non abbia ancora realmente sviluppato. Rischiano d’essere loro, i riformisti spiazzati e dunque spodestati, a pagare il pedaggio politico maggiore dell’anomalia tutta italiana: l’anomalia di finire in minoranza tra esigenze radicali da una parte e reazioni provinciali e provincialistiche dall’altra. Un riformismo costretto a dover continuamente mediare, anziché guidare il nuovo corso progressista. Ma dover rincorrere l’estremismo nella speranza di attenuarlo almeno un po’, non è propriamente il compito più esaltante per una sinistra che vuole parlare alla società senza il tabù dell’ideologia. Se a scrivere l’agenda politica del Paese sono «i movimenti» ostili alle alleanze internazionali dell’Italia e alle scelte strutturali di Alta velocità per restare agganciati al mondo, ci si chiede che significhi essere riformisti nel 2007. Di più: quale sia il peso del riformismo al governo, se esso non mobilita ma si debilita. Vedi l’ultima batosta della maggioranza al Senato, proprio sulla politica estera.
f.

guiglia@tiscali.it

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