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Quel pacifista ultrà che odiava Israele

Pipa stile comandante Marcos, berretto alla Lenin con l’inseparabile spilletta della bandiera palestinese, incurante di sfidare gli israeliani come scudo umano di pescatori e contadini nella striscia di Gaza, Vittorio Arrigoni, era un ultrà pacifista. Adesso che è stato ucciso, dai tagliagole dell’Islam duro e puro, lo dipingono come un piccolo eroe dell’informazione o un illuminato cooperante senza paura. Davanti alla sua tragica morte è doveroso abbassare il capo, ma Arrigoni non era il San Francesco di Gaza. Piuttosto un idealista estremo, filo palestinese con i paraocchi, anti israeliano all’eccesso e un po’ anarchico, a tal punto che gli hanno affibbiato «utopia» come soprannome.
L’ho incontrato nel 2009, con le macerie ancora fumanti dell’offensiva «Piombo fuso» contro la striscia di Gaza. Stava in piedi, con l’inseparabile pipa, in mezzo a un campo a 800 metri dalle postazioni israeliane, nella zona off limits. Faceva da scudo umano ai contadini palestinesi e da un momento all’altro mi aspettavo che gli sparassero. Sulle nefandezze di Hamas sorvolava e vedeva solo il «massacro e l’occupazione colonialista israeliana».
Durante i bombardamenti su Gaza ha raccontato in diretta la ferocia della guerra. Più che un giornalista indipendente, un minimo obiettivo, era una fonte preziosa, ma terribilmente di parte.
A Gaza, dove viveva, non faceva il cooperante all’Alberto Cairo, soprannominato l’angelo della Croce rossa internazionale a Kabul. Aiutava, sì, ma alla sua maniera, con uno slancio militante a favore della causa palestinese, che lo ha fatto diventare scudo umano per vocazione e utopista per scelta. I suoi miti erano Nelson Mandela, Ghandi, Martin Luter King, ma su Facebook scriveva cose terribili e astiosamente anti israeliane. Arrigoni è riuscito a prendersela anche con lo scrittore non certo reazionario, Roberto Saviano, che ha osato alzare il ditino a favore della democrazia di Tel Aviv.
Trentasei anni, lombardo, mi spiegava che seguiva le orme «dei nonni partigiani, che sapevano cose fosse l’occupazione nazi fascista» paragonandola a quella della Palestina. Durante la guerra un sito sionista ha incitato l’aviazione israeliana a farlo fuori. Una volta è stato pure arrestato. Ieri c’è chi lo ha salutato con un folle e macabro «arrivederci» sostenendo che ha raccolto «la gratitudine araba».
Da 12 anni Arrigoni girava a sprazzi il mondo come «attivista non violento». Se fosse rimasto a fare l’autista magazziniere dalle parti di Lecco non avrebbe scritto un libro sui massacri, veri e presunti, di Gaza tradotto in quattro lingue. Nella striscia era arrivato nel 2008 con la prima avanguardia della famosa e criticata Freedom flottiglia.
Arrigoni aderiva al Movimento di Solidarietà Internazionale, ong estrema votata alla causa palestinese. Come Giuliana Sgrena e le due Simone in Irak si sentiva probabilmente fra amici a Gaza, che mai li avrebbero torto un capello. Solo ultimamente aveva cominciato a seguire da vicino i blogger anti Hamas, che sognavano un cambiamento nella striscia come in Tunisia ed Egitto. I fondamentalisti non ci hanno pensato troppo a sbatterli in galera.
Antimilitarista convinto Arrigoni probabilmente si rivolta nella tomba davanti alla dichiarazione del capo di stato maggiore dell’Esercito sulla sua morte. Secondo il generale Giuseppe Valotto l’ultrà pacifista era animato «in fondo dagli stessi valori e principi dei nostri soldati e dallo stesso scopo: quello di servire la collettività, sia essa nazionale sia, nel caso specifico, la collettività palestinese». Siamo sicuri che la pensino proprio così i soldati in trincea in Afghanistan stufi marci delle accuse dei pacifisti o delle scritte ignobili come «10, 100, 1000 Nassiryah»?
Al di là delle sue idee giuste o sbagliate, Arrigoni ha fatto una terribile fine pure a causa del passaporto che aveva in tasca. Per questo motivo è giusto ricordarlo come un italiano vittima del terrorismo, con la sua frase simbolo: «Restiamo umani, Vik da Gaza City».
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