Politica

Quel Sud messo in ginocchio dal vizio di non voler faticare

Gli immigrati invadono il Mezzogiorno perché accettano di fare lavori che i giovani disoccupati rifiutano. Ma la cultura del lamento è una piaga. I ragazzi si aspettano sempre un aiuto dallo Stato. E, se non c’è, dalla criminalità

Dinanzi alle immagini di Rosarno, alla rivolta degli immigrati clandestini, mi viene una domanda molto scorretta. Perché la Calabria è piena di disoccupati, di giovani che si lamentano, e poi a raccogliere le arance arrivano dall’Africa questi uomini disperati? È giusto dire come fa il ministro Maroni: basta tollerare i clandestini. Ma la tolleranza della clandestinità ha dei padri (anche) molto molto giovani. Ragazzi-padri e ragazze-madri. Sono i giovanotti del lamento e del bar, nessuna voglia di lavorare perché si aspetta la manna dallo Stato, il posto e li coccolano tutti promettendo: ti sistemo, sta’ tranquillo. E se non è lo Stato o la Regione c'è sempre la ’ndrangheta. E i loro genitori che li curano, li trattano come la porcellana dietro la vetrinetta della vecchia zia, manovrarla con cura che si rompe.

In questo caso è chiaro che i cattivi non sono in primis i clandestini in rivolta. La violenza va repressa. Ovvio. Guai a lasciar ingrandire il fuoco. Non credo però che queste persone abbiano attraversato in massa il mare per andare in Calabria a far concorrenza alla ’ndrangheta e per esercitare la criminalità. Non sarebbero lì a Rosarno a cogliere mandarini. I cattivi sono di certo quelli che li hanno fatti arrivare in condizioni disastrose, i governanti locali e nazionali che hanno chiuso due occhi, ma anche i ragazzi di quelle parti che non hanno voglia di lavorare, specie se è un affare dove si usano le mani e fa male la delicata schiena per staccare dai rami i bergamotti, raggranellando magari qualche soldo nell’attesa di meglio. C’era domanda di manodopera in Calabria, ma niente offerta. Perché no? Perché la fatica non va bene, è roba da negri, non è vero? E dire che avendo la casa decorosa lì, si potrebbe anche studiare e lavorare qualche ora negli agrumeti, in America lo fanno. Anche in Italia. Conosco molta brava gente che frequentava le serali; lavorava di giorno, roba modesta, poco qualificata, per poi crescere grazie agli studi. Ma intanto sgobbava, provava le difficoltà della vita, e si migliora e ci si tempra anche pulendo le strade. Nel mio piccolo sono stato fortunato, ma mi è capitato di pitturare cancellate e di imbustare medicinali, invece del bar.

Mi capitò da cronista, negli anni ’80, di fare un’inchiesta sul lavoro in Calabria, a Lamezia Terme e paesi intorno. C'era disoccupazione e lamento, come ora, più di ora. Ma raccontai l’avventura di chi apriva piccole aziende artigiane per fare sedie sulla Sila, coraggiosamente, con problemi di strade e di trasporto enormi; chi invece di fare il pigro prof di Stato si metteva insieme con genitori e apriva cooperative scolastiche senza finanziamenti, piene di entusiasmo. Le fabbriche costruite con le sovvenzioni erano abbandonate già allora. C’era chi cercava di sviluppare la propria azienda agricola, mi illustrava come bisognasse fare concorrenza agli spagnoli nel campo degli agrumi e nel resto, perché quelli si organizzavano (già allora... ). Ma poi si immalinconì guardando i campi. Mi disse il giovane imprenditore triste: «È qui in macchina? Prenda una cassetta, raccolga le fragole». «Quanto me le mette?», «Scherza, sono gratis». Le fragole marcivano nel campo, era estate, ma i ragazzi non avevano voglia di abbassare la schiena, e se mai si presentasse qualcuno intervenivano subito le autorità per vedere se era tutto in regola, la paga in regola eccetera. Ma un ragazzo che tirasse su quel ben d’Iddio, che si ingegnasse in cooperativa per portare sui mercati e ai supermercati da Roma in su quella dolcezza fragolina? Niente. I figlioli stavano al bar a ciondolare e a protestare che non c’era lavoro, sorbendo eccellenti granite al caffè.

Qualcuno si dava da fare, costruiva qualcosa nell’inerzia. Li hanno fregati tutti. Se non è stata la ’ndrangheta è stata la magistratura politicizzata. Ricordo il capofila di questa azione di rinascita, era Tonino Saladino, lo conoscevo dai tempi dell’università a Milano a metà degli anni ’70: lui studiava veterinaria, ma era fidanzato con una di lettere. Andavamo insieme a prendere botte dai compagni fuori delle scuole tipo Berchet dove non lasciavano uscire i ragazzi di Cl senza dargli come minimo l’augurio della morte e cazzotti vari. Invece di restare a Milano, volle provare a risollevare la sua Calabria. Andai a vedere quel che faceva: magnifico. Mi disse: «I ragazzi qui non vedono il rapporto tra il lavoro e il denaro. Il denaro qui non si fa lavorando, ma avendo il posto e poi arrangiandosi». Tonino Saladino è stato messo sotto inchiesta. Peraltro anch’io per avergli telefonato un paio di volte.

L’altra sera ad «Annozero» si è visto plasticamente che cosa provoca l’arrivo dei clandestini. C’era una bella ragazza siciliana, 36 anni, precaria della scuola, il marito precario musicista a Palermo. Diceva: «Non abbiamo speranza». Chiedeva alla politica la soluzione. Dall’altra c’era Roberto Castelli che ha detto la cosa più semplice del mondo. «Perché non prova a darsi da fare? Mi alzavo alle quattro del mattino con l’auto gibollata e rientravo alle dieci la sera». Non è la politica che può mettere a posto il Sud, essa deve creare le condizioni di sicurezza perché se uno vuole impegnarsi, inventando qualcosa, mettendo su una bottega o un’azienda, possa farlo senza essere vessato dalla malavita e dalla burocrazia. Ma la prima condizione è quella strana difficile cosa che si chiama voglia di prendersi le proprie responsabilità, di mettere via il fazzoletto per le lacrime facili e il megafono dei professionisti della protesta, e provare persino a raccogliere le arance. Ci sarà meno immigrazione clandestina. Meno rivolte. Meno problemi con l’islam.

Sperare è possibile, bisogna rischiare di lavorare.

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