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Quell’esercito di eroi dimenticati che le guerre non hanno piegato

«È stato come un pugno sferrato con un guanto d’acciaio. Non dimenticherò mai la sensazione, fredda, metallica del proiettile penetrato vicino all’orecchio, da destra e uscito dal collo, a sinistra. Il sangue mi ha riempito subito la bocca e ho pensato: «Sono gli ultimi secondi della mia vita». Il caporal maggiore Gianluca Ricatti, 24 anni, del 183° reggimento paracadutisti Nembo, racconta così il suo ferimento in Afghanistan. Il 24 settembre 2009 il suo convoglio si stava avvicinando ad un villaggio nella famigerata valle di Zirko, quando è scattata l’imboscata. «Sentivo i fischi dei proiettili, che schizzavano a terra davanti ai mezzi blindati. Ad una quarantina di metri esplodevano le granate di mortaio - ricorda il parà - Ero in ralla, fuori dalla botola e rispondevo al fuoco con la mitragliatrice». Un proiettile di kalashnikov gli trapassa il collo e crolla dentro il blindato Lince. Chi lo soccorre lo dà per spacciato. «Invece sono un miracolato. Nessuna lesione permanente e ho recuperato completamente. Adesso tutti mi considerano un amuleto vivente» spiega il fuciliere con barbetta e basco amaranto. La cicatrice sul collo resterà per sempre, ma Ricatti ha voluto tornare da oltre un mese in Afghanistan con i paracadutisti della Folgore.
Negli ultimi dieci anni di «guerre» di pace hanno perso la vita 53 soldati italiani, ma oltre 150 sono rimasti feriti. Nulla rispetto ai sanguinosi conflitti del passato e alle migliaia di morti fra i civili iracheni e afghani, ma dei feriti d’Italia sappiamo e ne parliamo poco. In gran parte sono ragazzi poco più che ventenni feriti in combattimento o saltati per aria sulle trappole esplosive. A Il Giornale raccontano le loro storie di «miracolati» o dilaniati per sempre nelle carni ed impegnati nella battaglia per ricostruirsi una vita.
Il caporal maggiore degli alpini Cristina Buonacucina, 27 anni, non è donna che si lagna. Il 17 maggio scorso avanzava verso Bala Murghab sul fronte nord nell’Afghanistan occidentale controllato dagli italiani, con una colonna di 140 mezzi. «Ricordo un tonfo sordo e poi ho perso i sensi per una decina di secondi. Mi ha risvegliato la voce di Gianfranco, che era stato sbalzato fuori dal Lince dall’esplosione e urlava: «Cristina, Cristina» racconta il sottufficiale della compagnia Valanga, 32° reggimento Genio guastatori. Per il sergente maggiore Massimiliano Ramadù ed il caporal maggiore scelto Luigi Pascazio, seduti davanti, non c’era più nulla da fare.
«Il mio piede sinistro era girato dall’altra parte e vedevo la tibia, uscita dalla carne, incastrata fra le lamiere. - spiega Cristina, capelli corti e stampelle - Avevo paura, urlavo e mi preoccupavo del piede, che mi rimanesse attaccato». Tirata fuori ed evacuata in elicottero il caporal maggiore è la prima donna ferita gravemente in zona di operazioni. Per uscire dal tunnel ci è voluto tempo: «In un letto d’ospedale i primi giorni temi di chiudere gli occhi perchè rivedi tutta la scena. Mi svegliavo con la nausea e se una porta sbatteva sobbalzavo». Cristina ora combatte con la riabilitazione per tornare a camminare senza stampelle e rimanere nell’esercito.
La Difesa non ha voluto fornire le fotografie dei nostri soldati inzuppati di sangue. Secondo qualche generale sono immagini «inopportune». Il sangue dei feriti in incidenti stradali o disastri vari si può far vedere, ma quello dei militari impegnati nelle «guerre» di pace no.
«È strano, non so quante persone ci fossero attorno tra talebani che sparavano, militari italiani che rispondevano al fuoco e personale vicino al mezzo colpito, ma con Luca mi sembrava di parlare come se fossi in una stanza insonorizzata» ricorda il tenente colonnello medico degli alpini Federico Lunardi. Il 9 ottobre 2010, nella valle della morte in Gulistan, durante una furiosa battaglia con i talebani, un blindato Lince salta in aria. Dei soldati a bordo quattro vengono uccisi. Si salva solo il caporal maggiore Luca Cornacchia, grazie ad un valoroso intervento sotto il fuoco di Lunardi, che gli presta i primi soccorsi. «Dopo avermi passato il fucile, il momento più toccante è stato quando mi ha messo in mano la fotografia del suo bambino di due anni con su scritto “al mio amore”» racconta l’ufficiale medico. Lunardi ha parlato con diversi feriti d’Italia e da questi incontri potrebbe nascere un libro, il primo di questo genere dalla fine della seconda guerra mondiale.
A 25 anni, il caporal maggiore Stefano La Mattina, piemontese doc, con il diploma di perito elettrotecnico, poteva trovare un lavoro tranquillo: «Mi sono arruolato perchè è una scelta di vita. Ne sono convinto anche dopo essere stato ferito il 23 settembre 2009 in Afghanistan» sottolinea il paracadutista dell’11° compagnia Peste, 186° reggimento della brigata Folgore. «Sentivo il ticchettio metallico dei proiettili che colpivano il blindato. Stavo ricaricando l’arma quando i rumori della battaglia sono scomparsi, a parte un tonfo fortissimo. Ero stato colpito al braccio sinistro. Il proiettile entrato vicino al gomito era uscito dalla spalla per conficcarsi sul portellone del Lince. I miei compagni di squadra l’hanno conservato per scaramanzia» spiega il caporal maggiore davanti al monumento ai caduti di El Alamein. Sul campo di battaglia lo hanno trasportato a braccia, in barella, fino ad un elicottero per evacuarlo. «A bordo una tenente medico spagnola mi schiaffeggiava urlando: «Non dormire, non dormire» ricorda La Mattina, che aveva perso molto sangue. Dall’ospedale di campo di Herat ha cercato di indorare la pillola ai genitori dicendo che si è fatto male cadendo dal blindato. «Claudia, mia madre, mi ha subito detto: questa storia mi puzza» racconta il caporal maggiore con il braccio ancora fasciato e appeso al collo.
Qualcuno fra i feriti d’Italia si lamenta del labirinto amministrativo e delle spese legali per ottenere quello che spetta loro. Tutti vengono seguiti da vicino per le cure ospedaliere e psicologiche.
Vittorio De Rasis ferito gravemente nella strage di Nassiryah del 2003 ha lasciato i carabinieri, ma le cicatrici dell’Irak restano. «Non ci invitano neppure più alla commemorazione ufficiale - osserva il luogotenente in congedo - Ci sono i caduti, ma anche noi feriti abbiamo versato il sangue per la patria».
Simone Careddu, 30 anni, della compagnia Angeli neri, è saltato in aria in Afghanistan sulla statale 517. I soldati italiani l’avevano ribattezzata l’autostrada per l’inferno. Per il caporal maggiore dell’8° reggimento Genio guastatori di Legnago, costretto ad una sedia a rotelle, ma abituato a lanciarsi con il paracadute, la vera battaglia, al fianco di sua moglie Tiziana, inizia adesso.
Il 14 luglio 2009 il suo Lince è stato fatto a pezzi da troppi chili di esplosivo. Il tetto è volato via assieme al caporal maggiore scelto Alessandro Di Lisio morto sul colpo. «Non ricordo il boom, ma una nuvola di polvere nera ed il calore. Ho irrigidito i muscoli e si è spenta la luce. Mi sono ritrovato a terra a fianco del mezzo» racconta il guastatore. «Mi bruciavano gli occhi per colpa della nafta e avevo difficoltà a respirare. Il braccio destro era spezzato. - ricorda il giovane sardo - Sentivo il dolore dietro la schiena, come se ci fosse una pietra conficcata. E dicevo ai soccorritori levatemela, ma non c’era nulla. Ho capito subito che non sarei mai tornato a camminare». Simone ci offre un caffè nell’appartamento della Difesa a Verona, attrezzato per lui inchiodato alla carrozzella. «Vorrei tanto restare sotto le armi - spiega il coraggioso parà - È stato il mio sogno fin da bambino. Quando mi chiedevano cosa vuoi fare da grande rispondevo sempre: il soldato».
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