Quell’odiata legge elettorale che alla fine fa comodo a tanti

La vigente legge elettorale, partorita dal centrodestra agli sgoccioli della passata legislatura per far contento (nomen omen) Marco Follini, è l’esatto contrario di Genoveffa la Racchia. A chiacchiere nessuno la vuole, però quasi tutti se la tengono cara cara. Per forza, è partitocratica per eccellenza: conferisce alle segreterie politiche di elevare al rango di deputato e senatore, se punge loro vaghezza, perfino un cavallo. Ma sì, il proverbiale cavallo di Caligola.
Sarà per questo che i diretti interessati sorvolano su tale trave, mentre se la prendono con una pagliuzza che non è neppure tale. Sostengono infatti che la legge non assicura la stabilità ministeriale. Come proverebbero i risultati elettorali dello scorso anno e la risicata maggioranza della quale il governo Prodi gode (si fa per dire) al Senato. Ma questo è un falso bello e buono. Nessuna legge elettorale può garantire la governabilità finché avremo un bicameralismo paritario ed elettorati attivi di diversa consistenza nei due rami del Parlamento. Ma allora perché mai si fa un gran parlare di riforme elettorali più o meno salvifiche? Per il semplice motivo che il professor Giovanni Guzzetta, diavolo d’un uomo, ha ritenuto opportuno fare il bis, dopo lo strepitoso successo ottenuto nel 1993. Quando tenne a battesimo un altro referendum elettorale. Che relegò in soffitta la proporzionale e il tripolarismo. Tolse di mezzo una democrazia consociativa, ma al tempo stesso bloccata. E, grazie al maggioritario, ci dischiuse le porte dell’agognato Paradiso del bipolarismo. All’italiana, si capisce. Ma pur sempre meglio di niente. Moderato di centro o giù di lì, Guzzetta non si considera affatto un eversore. Non ha mai preteso di indossare i panni del pubblico ministero e accusare la classe politica d’inconcludenza. Quando capi, capetti e caperonzoli della nostra partitocrazia hanno sostenuto che dopo tutto questo referendum non è altro che uno stimolo al Parlamento perché faccia la sua parte, lui, Guzzetta, non ha fatto una piega ed è stato al gioco. Un confetto Falqui la sua creatura? E sia, purché si sgombri il campo da questa legge. E si muova un altro passo avanti verso l’ex perfida Albione. Perché l’ambizione di Guzzetta è per l’appunto quella di sostituire il bipolarismo con il bipartitismo di marca britannica grazie al premio di maggioranza conferito non più alla coalizione vincente ma al partito più votato.
Nel frattempo l’ammuina va in scena alla commissione Affari costituzionali del Senato. I disegni di legge sono diciotto: una follia. Si procede in ordine sparso. E il presidente Enzo Bianco nella veste di relatore, povero Cristo, non è ancora riuscito a sfornare uno straccio di testo base. A complicare le cose, poi, la senatrice Anna Finocchiaro ci ha messo del suo. Per conto dell’Ulivo ha presentato un disegno di legge favorevole al doppio turno alla francese. Con il risultato di scontentare amici e avversari: la sinistra radicale, contraria al maggioritario, e la Casa delle libertà, contraria al doppio turno. Insomma la capogruppo dell’Ulivo è riuscita - quando si dice il genio - a conseguire l’unanimità dei dissensi. A questo punto se i promotori non riusciranno a raccogliere le cinquecentomila firme richieste per il referendum abrogativo, in Parlamento si continuerà a tessere la tela di Penelope. E la legislatura bene o male continuerà, magari con un nuovo governo. Se invece le firme saranno raccolte, si voterà nella primavera dell’anno prossimo: o per il referendum o per il rinnovo delle Camere. Perché lo scioglimento parlamentare farebbe slittare il referendum di uno o addirittura di due anni. E quest’ultima, al momento, è l’ipotesi più probabile. Sempre che, ripetiamo, arrivino le firme: tutte, benedette e subito.


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