Quella grazia inutile ai terroristi mai pentiti

Da quando la Corte Costituzionale ha sentenziato che l’atto di grazia è una prerogativa del solo capo dello Stato, è più facile per lui accordarla o negarla, la grazia. Ed è più facile per noi criticarla. Soprattutto nell’ultimo caso del provvedimento firmato a beneficio di quattro cittadini austriaci e un cittadino italiano di lingua tedesca, cioè alto-atesino, che erano stati condannati con sentenza definitiva per gravi atti di terrorismo compiuti fra il ’64 e il ’67.
La grazia che Giorgio Napolitano ha concesso a questi anti-italiani riconosciuti colpevoli dalla magistratura della Repubblica, è poco più che un evento simbolico. Sia perché il presidente ha cancellato agli interessati la sola pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, sia perché le condanne sono state ormai prescritte per quattro di loro: e per il quinto lo sarà in dicembre. Insomma, sarebbe naturale saltare sul carro del giuridicamente corretto, per elogiare Napolitano: ha chiuso una vicenda lontana nel tempo, senza provocare alcuna conseguenza nel presente. Questi signori potrebbero e possono comunque circolare liberamente in Italia. E poi il capo dello Stato ha pure aggiunto che non grazierà quanti si sono allora macchiati di fatti di sangue. Ci mancherebbe, verrebbe a nostra volta da aggiungere.
Ma è proprio il fatto simbolico che lascia interdetti. Per almeno tre motivi. Primo: tutti questi graziati non hanno mai fatto un solo giorno di carcere, essendo all’epoca scappati e rifugiati in Austria, l’allora eldorado per i terroristi che agivano in Alto Adige. Dunque, la grazia simbolica arriva per una pena solamente teorica, perché nessuno ha mai «pagato» il conto alla giustizia. Secondo: non risulta che in questi decenni i graziati si siano prodigati nel dissociarsi dai loro atti, nel pentirsi d’aver partecipato a una simile campagna di violenza anti-italiana, quale fu quella degli anni Sessanta (e poi Ottanta) nella provincia di Bolzano. Non risulta che abbiano chiesto almeno scusa, una scusa umana e cristiana prima ancora che politica, all’Italia e agli italiani.
Terzo: saremmo lieti di conoscere quale contropartita diplomatica il nostro Paese abbia incassato o incasserà per quest’atto di generosità istituzionale. Proviamo a indovinare: nessuna. Perché da mezzo secolo si va avanti così nelle sempre più amare vicende dell’Alto Adige: solo concedere, sempre concedere, tutto concedere. Senza mai aver in cambio nulla dalla controparte. Si chiami, tale controparte, Svp, il partito di maggioranza relativa a Bolzano che tiene il governo Prodi inchiodato al Senato (e speriamo che alla Svp non salti in mente di pretendere la Luna; altrimenti il Professore sarebbe capace d’improvvisarsi anche astronauta pur di durare), o si chiami, tale controparte, governo di Vienna. Si pensi che già all’origine della controversia sulla tutela per gli altoatesini di lingua tedesca, l’Accordo De Gasperi-Gruber del ’46 prefigurava una serie di impegni per Roma, ma nessuno per l’Austria. E questa pessima abitudine non è cambiata neanche dopo il formale rilascio della quietanza liberatoria con cui Vienna ha dichiarato finite le sue lamentele a proposito dell’interpretazione sull’applicazione di quell’accordo bilaterale.
Per carità, siamo uomini di mondo: capiamo perfettamente le giuste ragioni di piena riconciliazione politica che anima la classe dirigente italiana, e certamente il presidente Napolitano, nei confronti di un Paese da poco visitato e col quale, peraltro, abbiamo relazioni eccellenti. Ma non si comprende perché ci debba essere il timbro più alto della Repubblica italiana, una Repubblica a noi tanto cara, sotto un atto di clemenza per gente che non l’ha meritata. E che forse non l’ha neanche formalmente e personalmente richiesta, tanto poco «riconosce» l’italianità dell’Alto Adige.
f.

guiglia@tiscali.it

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