Quella guerra strisciante tra Rifondazione e Pdci

Il commento politico più pungente all’ultima impresa di Oliviero Diliberto, sfilato per le strade di Roma sabato scorso con gentaglia che ha bruciato manichini di soldati italiani, americani e israeliani e ha inneggiato alla strage di Nassirya, è forse quello espresso da Massimo D’Alema nella triplice veste di presidente dei Ds, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri. «Io mi occupo - ha detto - del processo di pace tra israeliani e palestinesi, non tra i Comunisti italiani e Rifondazione».
In effetti, i comunisti di Diliberto e quelli del presidente della Camera Fausto Bertinotti non hanno ancora fatto la pace. Continuano tra loro le ostilità cominciate otto anni fa, quando Bertinotti fece cadere il primo governo di Romano Prodi non considerandolo abbastanza di sinistra e Diliberto, che poi sarebbe diventato ministro della Giustizia, gli spaccò il partito per costruirne un altro con il quale aiutare l’immaginifico Francesco Cossiga a portare D’Alema a Palazzo Chigi.
Ora è Diliberto a sentirsi più a sinistra di Bertinotti e a scavalcarlo ogni volta che un corteo gliene offre l’occasione, anche a costo di mescolarsi a quelli che lui stesso ha definito sabato «imbecilli», «delinquenti» e «provocatori», magari al soldo di qualche servizio segreto. Della loro mascalzonata egli ha anche avuto l’impudenza di dichiararsi «sorpreso», pur avendo testualmente dichiarato il giorno prima ad una cronista della Repubblica che lo aveva intervistato sul corteo al quale egli aveva confermato la partecipazione: «Non temo gli imbecilli. Se uno compie un reato, ad esempio atti di violenza, c’è la legge e interviene la magistratura. Se qualcuno dice scemenze è colpa sua. C’è il diritto costituzionale di poter dire scemenze, peraltro largamente usato trasversalmente».
Il paradosso, sul quale D’Alema nel suo sarcastico commento ha sorvolato, è che i partiti di Diliberto e di Bertinotti, pur facendosi una spietata concorrenza nello spazio dell’antagonismo sociale e politico, si sentono e si proclamano entrambi «sentinelle» di Prodi, del cui governo fanno parte a pieno titolo. E Prodi, dal canto suo, accetta questo singolarissimo servizio di vigilanza. Più che un protetto, egli è un ostaggio degli estremisti, affetto però da quella che gli specialisti chiamano la sindrome di Stoccolma. È tanto compiaciuto del suo stato da collaborare con chi lo tiene soggiogato e da temere chi fra gli alleati vorrebbe in qualche modo liberarlo chiedendogli di passare alla cosiddetta fase 2 del governo: quella delle riforme, che sono osteggiate dalle sue sentinelle. Alle quali basta e avanza evidentemente la «rivoluzione» estiva delle aspirine in vendita anche nei supermercati. O quella dei taxi, sostanzialmente fallita per ammissione di buona parte della stessa maggioranza.
Peccato infine che D’Alema, volendo sembrare distaccato dalle beghe della sinistra di governo, abbia enfatizzato ancora una volta l’impegno che lo assorbe nel «processo di pace tra israeliani e palestinesi». Almeno per ora su questo terreno egli è riuscito solo a guadagnarsi il «boia» gridatogli a Roma dai filopalestinesi e le proteste delle comunità ebraiche per avere attribuito le responsabilità della gravissima situazione di Gaza agli israeliani, attaccati per primi con missili e quant’altro dopo averla sgomberata.

Non parlo poi di ciò che sta accadendo in Libano, dove D’Alema ha gli stessi amici di Diliberto: i mestatori armati di Hezbollah.

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