Quella smorfia di D’Alema dopo le gaffe del Professore

Alle lacrime da crisi d’identità ci aveva già abituati Achille Occhetto versandone nel 1991 al congresso che segnò il passaggio dal Pci al Pds tra le macerie del muro di Berlino. Non mi ha pertanto né sorpreso né commosso il pianto di Piero Fassino all’ultimo congresso dei Ds: quello di fecondazione del Partito Democratico, dove entro un anno confluiranno i post-comunisti dello stesso Fassino e Massimo D’Alema, i post-socialisti di Giuliano Amato, i post-democristiani di sinistra di Franco Marini e Ciriaco De Mita, i post-radicali di Francesco Rutelli, i post-ambientalisti di Ermete Realacci, i post-liberali di Valerio Zanone, i post-non so che di Lamberto Dini e altre cianfrusaglie prodotte dal crollo della cosiddetta prima Repubblica.
Più delle lacrime di Fassino mi hanno incuriosito le smorfie di D’Alema impietosamente riprese dalle telecamere di Sky mentre Romano Prodi, parlando al congresso dei Ds, assegnava alla formazione che si andava fecondando anche il compito di applicare «finalmente», cioè per la prima volta, l'articolo 49 della Costituzione. Che dice: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Il tono con il quale il presidente del Consiglio ha sottolineato il «metodo democratico», anziché dettato solo dalle polemiche sviluppate nella Margherita proprio dai prodiani per i brogli verificatisi nell'ultimo tesseramento e proiettatisi sulle assemblee precongressuali, è probabilmente apparso a D’Alema allusivo anche nei riguardi del suo partito. Dove non si può dire certamente che sia mancata la pratica della democrazia, almeno nella fase post-comunista, ma non si può neppure dire che sia stata esente da ombre. Lo dimostrò l’elezione proprio di D'Alema a segretario nel 1994, voluta dall’apparato nonostante il successo di Walter Veltroni nelle «consultazioni» della base seguite al licenziamento di Occhetto, uscito fuori strada con la «gioiosa macchina da guerra» condotta contro l’esordio politico di Silvio Berlusconi.
Prodi dev’essersi accorto di avere in qualche modo ferito il suo potente alleato e vice presidente del Consiglio se ne ha poi elogiato l’azione di ministro degli Esteri e celebrato dalla tribuna congressuale il cinquantottesimo compleanno, che ricorreva proprio quel giorno. Ma D’Alema, del quale tutto si può dire ma non che sia ipocrita, non foss’altro per l’incapacità di controllare i muscoli facciali, non mi è apparso incantato dagli auguri, e neppure dagli elogi ricevuti come ministro. Che Prodi, d’altronde, scavalca spesso e volentieri, anche a costo di provocare tragici pasticci.

È accaduto, per esempio, con la gestione del sequestro del giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo in Afghanistan, conclusosi con lo sgozzamento di due dei tre ostaggi.

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