Politica

QUESTA EUROPA A TASSO VARIABILE

Appena la Francia ha cominciato a presiedere l’Unione europea, anche la Polonia ha detto che non ratificherà il Trattato di Lisbona. Il presidente francese Nicolas Sarkozy non aveva dunque torto dichiarando: «Il no irlandese non sarà facilmente superato». La sua presidenza dell’Ue non nasce dunque sotto i migliori auspici: alla congiuntura economica sfavorevolissima (rincaro del petrolio, crescita minima, ritorno dell’inflazione), aggravata dal teso contesto politico internazionale (rischio di guerra con l’Iran innanzitutto), si somma un serio problema istituzionale. Difficilmente Sarkozy potrà far accettare ad altri membri dell’Unione che la ratifica del Trattato, per lui prioritaria, prosegua nel disprezzo della volontà espressa dal popolo irlandese e dal governo polacco. Del resto già il no irlandese aveva immobilizzato l’Europa. Vediamone il senso. Nel 1987 il cittadino irlandese Raymond Crotty aveva eccepito davanti alla Corte suprema del suo Paese che ogni modifica dei trattati europei esigeva di emendarne la Costituzione e che ogni emendamento andava approvato con referendum; dunque anche ogni cambiamento d’un trattato europeo. La Corte suprema gli aveva dato ragione. È dunque grazie a Crotty se il 12 giugno gli irlandesi hanno potuto pronunciarsi sul Trattato di Lisbona, con il noto esito (53,8 per cento di no). Per la storia, un unico popolo ha potuto esprimersi direttamente sul Trattato e l’ha respinto; ma soprattutto gli altri popoli se ne sono visti negare la possibilità, mentre avrebbero voluto averla - secondo i sondaggi - nella percentuale del 75%.
Le cause del rifiuto opposto dagli irlandesi a un testo giudicato «incomprensibile» sono molteplici. Hanno avuto un ruolo le preoccupazioni per l’immigrazione, l’agricoltura, la disoccupazione e l’avvenire dei servizi pubblici. Gli irlandesi, che non sono nella Nato, tengono poi molto alla neutralità - effettiva dalla proclamazione della Repubblica nel 1937 - e nel quadro europeo temono di aumentare le spese militari, peggio, di partecipare a guerre lontane, come quella in Afghanistan. Proprio per non alimentare i timori irlandesi, fino al 12 giugno non è apparso il Libro bianco sulla difesa e la sicurezza sui grandi orientamenti strategici della Francia nei prossimi quindici anni. «Che immensa delusione!», aveva detto il premier irlandese Brian Cowen, pur riconoscendo che «il popolo ha parlato». Più realista, gli ha fatto eco l’ex ministro della Difesa francese, Jean-Pierre Chevènement: «I popoli non si lasciano diluire in un’Europa tanto tecnocratica quanto antisociale».
E ora? Subito dopo il no irlandese era già chiaro che si sarebbe fatto di tutto per non tenerne conto, visto che, per alcuni, esso non era un ostacolo «insormontabile». Fin dallo scorso febbraio, 499 deputati europei avevano votato contro la mozione che prometteva soltanto di tener conto del referendum irlandese. In una dichiarazione congiunta, Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel hanno invitato ad andare avanti nel processo di ratifica. Un popolo dice basta? Loro continuano. E c’è chi vuole negoziare con l’Irlanda deroghe su certi punti - come accadde nel 1992 con la Danimarca, che aveva respinto il trattato di Maastricht - onde rispedire alle urne gli irlandesi sulla base d’un testo «riveduto». Ma chi garantisce che gli irlandesi accettino di votare ancora e che, se accettassero, modifichino il voto, come accadde nel 2002 con il Trattato di Nizza? Se dicessero ancora no, cosa accadrebbe? Per ora di certo c’è soltanto che l’Ue affronta una nuova grossa crisi che peserà sulla presidenza francese. Ancor prima della decisione polacca, il Lussemburgo aveva detto che il Trattato di Lisbona - «nato morto» per il presidente della Repubblica ceca, l’euroscettico Vaclav Klaus - non avrebbe potuto entrare in vigore il prossimo primo gennaio.
Il francese Nicolas Dupont-Aignan non ha torto nel dire che «oggi gli irlandesi, come nel 2005 i francesi e gli olandesi, non sono ostili all’Europa». Infatti, non è soltanto dei «sovranisti», ostili a ogni forma di sovranazionalità, l’opposizione al Trattato. Essa è condivisa da chi sperava nell’Europa e ancora crede alla necessità di un’Europa politicamente unificata, ma constata come l’Ue, a lungo apparsa come una soluzione, oggi sia un problema. Costoro vogliono un’Europa che sia potenza autonoma e crogiolo di culture e civilità, con un ruolo di regolatore della globalizzazione in un mondo rimasto multipolare. Constatano che, con la sua ideologia funzionalista, l’Ue non ha sovranità politica, economica e militare, e non ha politica indipendente, ponendosi sempre più come semplice zona di libero scambio allineata a Washington. Vogliono un’Europa che ascolti i popoli e li protegga; hanno un’Unione senza legittimità democratica, che nega ai popoli di esprimersi, li rende più vulnerabili, aderendo acriticamente a un sistema economico che li rende merci.
Il grande insegnamento del voto irlandese è stato rivelare la significativa larghezza del fossato fra i popoli e la casta politico-mediatica d’ogni tendenza. Come nella Francia del 2005, in Irlanda oltre al governo Cowen, ogni grosso partito di destra e sinistra, e ogni grosso sindacato connesso ai partiti, era per il sì. Ma hanno vinto i no. Se ne traggono però anche altre lezioni. La prima è che il voto di un piccolo popolo di quattro milioni di persone (meno dell’1 per cento della popolazione europea) ha bloccato l’imponente macchina brussellese. Del resto gli irlandesi hanno resistito sette secoli alla potenza inglese. L’altra lezione è che il no di destra non avrebbe vinto da solo, così come il no di sinistra non avrebbe vinto da solo. C’è voluta la somma dei due rifiuti.

Il vecchio antagonismo destra-sinistra cede sempre più spesso alla trasversalità.
Alain de Benoist
(Traduzione di Maurizio Cabona)

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