Controstorie

Qui la gente non emigra ma si rimbocca le maniche

Una nazione poverissima dove molti giovani hanno deciso di rilanciare il più grande parco nazionale

Luigi Guelpa

Cristallizzando l'idea di un'Africa che fugge, si rischia di perdere di vista l'Africa che sfugge e che si sottrae dal pensiero stereotipato di continente che vorrebbe riversarsi sulle coste del Mediterraneo. Non è né tragica e neppure oleografica l'Africa di chi si incontra nelle campagne, nei mercati, nelle scuole (a volte solo un rettangolo d'ombra sotto a un'acacia), lungo le strade delle small town e dei villaggi. Un'Africa che lavora, studia, progetta e si sacrifica. Straordinaria nella sua quotidianità, che merita un applauso per la capacità di resistere, che non si arrende al deserto, a ogni genere di deserto, e che non si affida ai viaggi della speranza.

Nella Repubblica Centrafricana, nazione economicamente fallita, e dilaniata dalla ferocia dell'islam radicale, qui presente con la sigla «Seleka», che martirizza la maggioranza cattolica, è avvenuto un piccolo grande miracolo. Alimentato da un centinaio di ragazzi che non ha mai pensato di mollare tutto per affidarsi ai pirati del mare e ai signori della fuga, ma che ha scelto di rilanciare le sorti del Paese rimettendo in piedi il parco nazionale Bamingui-Bangoran, uno dei più estesi di tutto il Continente nero. Dopo essere stato bloccato dalla guerra, il progetto di conservazione della fauna del nord della Repubblica Centrafricana, finanziato dagli anni ottanta dall'Unione europea e rinominato «Ecofaune+», sta riprendendo lentamente vita. I ragazzi si sono autoproclamati guardia-parco, con l'obiettivo di farsi vedere di nuovo in giro e tenere lontano i bracconieri.

Bertrand Toropité, 32 anni, una laurea da farmacista in tasca, è uno degli ideatori del progetto: ha trovato una vecchia mappa individuando i sentieri praticabili. Sono in realtà piste non più battute da parecchio tempo, sicuramente dall'inizio della guerra civile del 2013, che a queste latitudini chiamano «i disordini». Dopo i deliranti progetti del «cannibale» Jean Bedel Bokassa, che si proclamò imperatore e tredicesimo apostolo con l'appoggio dell'allora presidente francese Giscard d'Estaing, ci si era quasi dimenticati dell'esistenza di questa nazione. Purtroppo l'eccidio jihadista, iniziato cinque anni fa, ha riportato sotto i riflettori una terra dove circa due dei cinque milioni di abitanti vive nell'indigenza totale. La riconquista sarà lenta, ma non solo per le condizioni di contorno.

«Ribelli, bracconieri, allevatori nomadi. Ogni volta rischiamo di fare brutti incontri, ma è sempre meglio che rimanere con le mani in mano», racconta Bertrand. I predatori più pericolosi sono ovviamente gli uomini armati. Le vere fiere sono sparite. Leoni, elefanti, antilopi e giraffe hanno abbandonato quello che un tempo era il loro paradiso, uno dei parchi più ricchi di fauna di tutta l'Africa. Gli animali rimasti sono spauriti e silenziosi. Per farli tornare e per tentare la riproduzione non resta che la bonifica di un territorio di centomila chilometri quadrati, esteso quanto un terzo dell'Italia. Lungo le piste di fortuna non c'è più alcun cartello a segnalare l'area protetta. Il parco non è da nessuna parte perché è dappertutto. Sulle mappe il nordovest della Repubblica Centrafricana è quasi interamente classificato come parco. Oggi i giovani intenzionati a rigenerare il progetto «Ecofaune+» hanno ambizioni più modeste, puntando a preservare almeno un decimo della superficie. Sembra almeno sulla carta una missione possibile. La Repubblica Centrafricana è uno stato fallito, che è appena in grado di mantenere il controllo della capitale Bangui, tirata a lucido il 29 novembre del 2015 quando Papa Bergoglio aprì la porta Santa della cattedrale di Notre Dame. In un paese a maggioranza cristiana tutto il nord è in mano alla guerriglia musulmana. «Siamo una goccia d'acqua nella sabbia - racconta Hilaire Kottoy, 29 anni, tecnico informatico -. Abbiamo una trentina di armi, quelle conservate dalle guardie che si sono unite alla nostra iniziativa. I disordini hanno condannato tutti alla disoccupazione». Per tre anni Bertrand, Hilaire e i loro amici hanno aspettato la ripresa del progetto, nascondendo i fucili nella boscaglia per evitare che li prendessero i jihadisti. La loro forza di volontà sta diventando contagiosa e anche gli abitanti delle città di Ndelé e Bamingui, che in passato hanno sempre trascurato la protezione della fauna, o che in talune circostanze si sono aggregati ai bracconieri, provano nostalgia per l'epoca in cui il pericolo principale sulle strade non era un'imboscata dei banditi, ma un incontro ravvicinato con un bufalo, una giraffa o un elefante.

Nonostante tutto, il Paese resta strategico sia per le sue risorse naturali sia per la sua posizione geografica. Il ritiro delle truppe francesi ha fornito un ottimo pretesto al presidente russo Putin di piazzarsi nella regione, dove già difende il presidente burundese Pierre Nkurunziza e quello congolese Joseph Kabila. L'attuale capo di Stato centrafricano, Faustin-Archange Touadera, lo scorso 26 maggio si è recato al Forum Economico di San Pietroburgo. Il ritiro delle truppe francesi ha lasciato Touadera praticamente indifeso. Per contrastare le milizie musulmane, Touadera dispone di soli due battaglioni, circa 1.300 uomini senza armi ed equipaggiamento moderno.

E nel bel mezzo di questo inferno c'è chi, pur avendo titolo per fuggire e ottenere lo status di rifugiato di guerra, ha deciso di rimanere, sognando di cambiare le sorti di una terra martoriata.

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