Controcultura

Rabbia e rime supersoniche: l'incoronazione dell'Elvis rap

Ieri a Milano il primo concerto italiano dell'artista diventato il simbolo dell'«invettiva» messa in musica

Rabbia e rime supersoniche: l'incoronazione dell'Elvis rap

Dopotutto quando lui è diventato Eminem, diciamo alla fine degli anni Novanta, i rapper erano davvero cattivi. Ora molto meno. Forse per questo, per celebrare l'icona di un tempo che fu, ieri sera all'Area Expo erano ben ottantamila - concerto esauritissimo da mesi - per il suo primo show italiano, una colossale distesa di persone che in gran parte ha scoperto il rap grazie a lui, alle sue rime, alle sue invettive pre-grilline farcite di vaffa e minacce politicamente scorrettissime (prima Bush, ora Trump, in mezzo tantissimi altri, Moby, Christina Aguilera, persino la propria madre).

Lo chiamano l'Elvis Presley del rap, intanto perché è tuttora l'unico bianco in un mondo musicale naturalmente dominato dai neri. Ma è l'Elvis del rap anche perché la sua è un'attitudine da rockstar, meno legata a rivendicare i simboli della nuova ricchezza e più vincolata alle macerie del proprio animo, al racconto cantautorale di un'esistenza nata con il piede sbagliato visto che il padre lo ha abbandonato da piccolo dopo averlo probabilmente molestato e la madre era schiava di alcol e droga.

Perciò quando appare sul palco con una cover di Dr Dre (Medicine man) l'accoglienza è da superstar d'altri tempi. Boati di quelli veri, legati all'affetto per un artista e non solo scatenati dall'ammirazione per la macchina roboante del suo show (ogni riferimento al kolossal di Jay-Z e Beyoncé è puramente voluto). In fondo sul palco c'è la teatralizzazione perfetta del rap, la sceneggiatura da tragedia greca con il protagonista, nato Marshall Mathers nel 1972 e cresciuto a Detroit, e il deuteragonista che è il suo alter ego Slim Shady. Tra loro il dialogo è continuo in quell'ideale crepaccio che nelle canzoni si apre tra il male e il bene, tra il dolore e la voglia di vendetta, tra le insicurezze e la voglia di superarle (ad esempio nella splendida The Real Slim Shady o nella incalzante The Way I am). Oltre due ore di concerto, scaletta quasi enciclopedica con brani da tutti i suoi dischi, ritmo serrato alla faccia dei suoi quarantacinque anni vissuti e (una volta) stravissuti.

E anche lo spettacolo è rap prima maniera, ossia duro, senza compromessi. Negli Stati Uniti il pubblico ha polemizzato per l'abbondanza di esplosioni durante lo show. Risultato? Un annuncio sui megaschermi prima del concerto: «Se sei facilmente impressionabile dai rumori forti o se ti offendono i testi espliciti non dovresti essere qui, firmato Eminem». Altri avrebbero abbozzato e ridotto il frastuono, lui no.

Nell'epoca del rap sempre più pop, forse per questo Eminem oggi è il testimone di un tempo passato ma non ancora invecchiato, nonostante l'ultimo album e il tour si intitolino Revival. D'altronde sul palco lui fa quasi impressione tanto è veloce nelle rime. Il suo flow implacabile, dopotutto, la capacità di «rimare» senza quasi fiatare sono state le password per entrare nel mondo chiuso del rap americano, a volte gangsta oppure hip hop, ma sempre legato al manuale della «fuga dal ghetto». Il ghetto di Marshall Mathers si vede nel film quasi autobiografico 8 Mile (per il quale è stato il primo rapper a prendere l'Oscar per la miglior canzone) ed è un ghetto dovuto alla sfortuna e al destino più che al colore della pelle e allo schifoso razzismo. E anche qui, davanti all'immensa platea dell'Area Expo, il suo non è un concerto di rivendicazione o un elenco delle barriere superate. È la carrellata sul repertorio di un rapper che ha fatto la storia e che è anche riuscito a incasellare almeno tre super brani capaci di entrare nel mondo pop a tutti gli effetti: Stan (featuring Dido), The Monster (con Rihanna) e Walk on Water con Beyoncé, fino all'ultimo candidata a cantarla dal vivo anche qui con lui. Invece tutti e tre i brani sono duettati con la bravissima Skylar Grey, una delle poche collaboratrici che siano state capaci di resistere con lui per tanti anni.

Il resto è un Eminem show alla velocità della luce. Letteralmente. Nella versione originale di Rap God (qui quasi all'inizio) è arrivato a rappare 97 parole in 15 secondi (praticamente oltre sei parole al secondo) e pure negli altri brani la cadenza è quasi estenuante. Un fenomeno. E il pubblico reagisce come davanti ai fenomeni attesi per decenni. E pazienza se la quantità d'insulti e di parolacce è oltre il livello medio: spesso sono così frenetiche da risultare pressoché incomprensibili. Per capirci, anche i concerti rock sono sempre stati contenitori di parolacce.

In fondo, questo rapper mingherlino, da sempre sganciato dalle mode perché è lui stesso una moda, è riuscito ad andare ben oltre, diventando l'unica vera rockstar del rap senza mai perderci la faccia.

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