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Il racconto: "Il pomeriggio dell'agente Grotta"

Luglio torrido. Il poliziotto approfitta della giornata di libertà per fare una commissione alla fidanzata: un semplice acquisto al supermercato. Ma le cose non vanno per il verso giusto...

Il racconto: "Il pomeriggio dell'agente Grotta"

L’agente Filippo Grotta quel primo venerdì del misi di luglio che faciva un càvudo che arrinisciva ad assintomare macari le lucertole, non era di servizio, aviva il doppopranzo libero.
Niscenno dal commissariato, addecise di annare a trovare subito la sò zita, Angela, che dal jorno avanti sinni stava corcata per una botta d’infruenza fora stascione, e quindi non era annata a travagliare. Se avivano fortuna e se non c’era nisciuno in casa avrebbiro avuto tanticchia di tempo per potiri parlari del loro problema.

Di Angela lui si era ’nnamurato tri anni avanti, manco dù jorni doppo ch’era arrivato in paìsi, appena ch’era trasuto nella tabaccheria vicina al commissariato, indove lei stava darrè il banco a serviri i clienti.
Angela, ma che si chiamava accussì lo seppi doppo, dovitti domannargli per tri volte di seguito che cosa addesiderava datosi che lui era ristato ’ngiarmato a taliarla e ’ncapaci di raprire vucca per dire:
«Due cartoline postali e i francobolli».
Li voliva spedire a dù amici, e lo fece, ma quelle cartoline non arrivarono mai a destinazione pirchì, e macari questo lo seppi doppo, era talmente ’ntordonuto dalla vista della picciotta che in una sbagliò completamente l’indirizzo e nell’altra l’indirizzo manco ce lo mise.
Da quel primo jorno non passò jorno che non annò in tabaccheria con la scusa d’accattarisi le sigarette.
E si trattava di una vera e propia scusa, dato che lui il vizio del fumo non ce l’aviva epperciò i pacchetti li distribuiva ai sò colleghi che lo sfottevano per l’innamoramento ma le sicarette se le fumavano a gratis lo stisso. Anzi, certe volte avivano la facci tosta di dirgli quali marca avrebbi dovuto accattare il jorno appresso.

Un doppopranzo che non c’erano altri clienti, Angela lo taliò ’mparpagliata:
«Ma lei che fuma?» gli spiò.
«Eh?» fici lui strammato in quanto che era completamente perso nei sò occhi.
«Lei che fuma?» arripitì la picciotta.
«Sigarette».
Angela si misi a ridiri.
«Questo l’ho capito. Ma il fatto è che lei, in una settimana, ha comprato cinque pacchetti di marche diverse. E non l’ho mai visto fumare due volte che l’ho incontrato per strada».
«M’ha incontrato?».
«Sì».
«E com’è che io non l’ho vista?».
«Si vede che pensava a qualche ragazza».
Era il momento priciso per dirle che lui pinsava sulo a lei, ma raprì la vucca e la chiuì. Aviva la gola arsa.
«Un vero fumatore fuma sempre sigarette della stessa marca» gli spiegò Angela. «Lei non è un fumatore. Mi vuole spiegare che se ne fa di tutti i pacchetti che compra?».

Ora Filippo s’addunò che nell’occhi della picciotta s’era addrumata ’na luci maliziosa. Aviva accapito tutto, e forsi l’aviva accapíto fin dalla prima volta che lui aviva mittuto pedi nella tabaccheria.
«Li rigalo agli amici» arrispunnì arrussicanno.
E si sorrisero, pirchì s’erano accapiti.
Passati dù misi, Angela se lo portò a canosciri alla famiglia. Che in breve addivintò la secunna famiglia di Filippo.
Angela era l’ultima di quattro figli, dù mascoli e dù fìmmine. Il cchiù granni dei fratelli, Marco, era maritato e aviva un figlio di quattro anni, Gigi, che era addivintato un granni amico di Filippo. Tanto che il patre ne era tanticchia giluso.
Quanno il picciliddro faciva i capricci e non voliva mangiare, abbastava che glielo diciva Filippo e subito obbidiva senza manco diri biz. Lo stisso se c’era da pigliari ’na medicina o farisi fari ’na gnizione. E appena era possibile, s’addimostrava filici se Filippo se lo portava a spasso.

Il problema del quali Angela e Filippo da qualichi tempo avivano accomenzato a discutiri era che molto probabilmente lui sarebbe stato presto trasferito in un altro paìsi. Angela voliva abbannunari il travaglio nella tabaccheria e seguire Filippo, ma sò patre e sò matre s’opponivano.
«Prima maritatevi».
E questo era il vero busillisi.
Pirchì non c’era dubbio che Angela e Filippo si amavano, e pinsavano seriamenti di passari il resto della loro vita ’nzemmula, però avrebbiro voluto accanoscirisi ancora meglio prima di maritarisi: a fari la somma, sempri con la famiglia torno torno, i loro momenti privati erano stati picca e nenti. Che fari? Come aggiustare le cose senza dispiaciri a nisciuno?
Fortunatamente, quanno arrivò in casa d’Angela, l’attrovò sola. Ma se la passarono bona solamenti per una mezzorata scarsa pirchì po’ tornaro i genitori ch’erano annati a fari la spisa nel novo supermercato aperto da ’na simanata. Erano carrichi di buste di plastica e stanchi morti.
«Voi non ve lo potete immaginare la gente che c’è al supermercato! Tutti si preparano a partire per le vacanze, fanno le provviste e oltretutto è venerdì pomeriggio!».
«Peccato che c’è tanta gente!» disse Angela.
«Perché?» le spiò Filippo.
«Perché se c’era meno gente ti dicevo di andare a comprarmi una cosa».
«Ma io ci faccio un salto lo stesso. Ci metto un attimo, piglio la macchina, vado e torno. Dimmi».

Si trattava di un costume da bagno che lei aviva visto esposto qualichi jorno avanti nella vitrina del supermercato, ma non aviva potuto accattarisillo subito pirchì si era addunata che si era scordata il borsellino coi soldi a casa. Si scantava che se pirdiva ancora tempo, lo vinnivano. E lo descrivì minutamente a Filippo, dandogli macari le misure precise.
«Sei capace?».
«Comunque» fici il picciotto «se mi trovo in difficoltà ti chiamo al telefonino».
«Però non c’è bisogno di andarci subito. Forse tra un due ore ci sarà meno gente e ti sbrighi prima».
Allura si misiro a parlari fitti fitti del loro problema, senza addunarisi che il tempo passava. Tutto ’nzemmula Filippo disse:
«Ma sono già le sei e mezzo!».
E a malgrado che faciva ancora un gran càvudo, si misi la giacchetta e niscì.

Con la machina si caminava ch’era ’na billizza. Le strate erano svacantate e silenziose, sicuramenti mezzo paìsi già sinni era partito di gran cursa per le vacanze.
Percorrenno ’na via chiuttosto stritta, vitti davanti a lui ’na signura, che doviva essiri di ’na certa età, che annava a lento supra a ’na bicicletta.
Po’ tutto capitò in un attimo.
Con una potenti sgommata, ’na Bmw virdi scuro sbucò di darrè l’angolo a velocità pazza, superò a Filippo, pigliò in pieno la signura in bicicletta che volò in aria, continuò la sò strata senza fermarsi, scomparse giranno a mano dritta.

Filippo, mentri curriva verso la signura, aviva già col telefonino chiamato un’ambulanza. La povira fìmmina stava stinnicchiata ’n terra, aviva l’occhi chiusi e si lamentiava. Non si vidiva sangue, ma forsi aviva qualichi lesione interna. La bicicletta, tutta torta, era annata a incastrarsi tra dù machine parcheggiate davanti al marciapedi.
Filippo s’inginocchiò allato alla signura senza toccarla, si calò avanti fino a squasi appuiare la sò facci supra a quella di lei e accomenzò a parlarle con voci calma e rassicurante.
«Stia calma. Si faccia forza. Coraggio. L’ambulanza sta arrivando. Coraggio».
Doppo un tempo che gli parse interminabile, e inveci erano passati sì e no otto minuti, l’ambulanza arrivò.
«Dove la portate?».
«Al San Filippo».
Si misi in machina e annò in commissariato.
«Ma non eri libero?».
«Sì, ma sono venuto a denunziare un incidente».
Fici la denunzia al collega e gli disse macari che della Bmw virdi scuro s’arricordava il comincio della targa: DC 45.
«Stai tranquillo che lo becchiamo» lo rassicurò il collega.
«Quando lo prendete, avvertitemi: voglio guardarlo in faccia».

Dal commissariato annò nello spitale. Arriniscì a sapiri che la signura era sì grave, ma non in pericolo di vita.
Si rimisi in machina, forsi ce l’avrebbe fatta a tempo ad arrivari al supermercato prima che chiuiva.
Il costume da bagno che voliva Angela era sempri esposto in vitrina. Ma era arrivato a tempo a tempo pirchì già, all’interno, le luci erano mezze astutate e si travidiva picca gente. Una sula porta d’entrata ristava ancora aperta, le altre erano state inserrate.
Superò la porta a vetri di un passo con l’occhi vasci pirchì aviva visto che aviva ’na scarpa slacciata e di subito si bloccò.
I sò occhi avivano incontrato un altro paro d’occhi che accanosciva beni. Erano l’occhi del sò amico Gigi, il nipoti di Angela, ma erano occhi sgriddrati, scantati, dilatati da un terrore muto. Il picciliddro stava con la testa voltata verso la porta, il resto del corpo era tinuto impiccicato contro la cassa da ’na mano grossa e forti. La mano appartiniva a un omo che gli voltava le spalli e che tiniva nell’altra mano qualichi cosa che puntava contro la cassera. Marco, il patre di Gigi, era tanticchia cchiù lontano e aviva l’occhi fissi e sbarracati supra al figlio. Miracolosamente nisciun altro, all’infora di Gigi, si era addunato del sò arrivo. Stavano facenno ’na rapina e il picciliddro da un momento all’altro potiva addivintari un ostaggio.

Allura, agendo d’istinto, si voltò e niscì fora dal supermercato con lintizza, come uno che voliva accattare ’na cosa, ma aviva cangiato idea all’ultimo momento. Pariva uno che aviva tempo di perdiri, ma dintra di lui il sò ciriveddro girava vorticosamente.
Ma quanti erano dintra? Non lo potiva sapiri.
Abbisognava comunque sfruttare il colpo di fortuna che il rapinatore alla cassa non l’aviva visto. L’occhi di Gigi erano stati meglio di ’na sirena d’allarmi.
Di trasiri nuovamenti dintra, pistola in pugno, manco a parlarne.
Inoltre non sapiva se il rapinatore aviva complici e indove s’attrovavano. Capace che quelli reagivano sparanno all’urbigna e succedeva ’na carneficina. No, non era propio cosa. Non stavano facendo un film.

Pinsò che di certo davanti al supermercato doviva esserci ’na machina che aspittava i rapinatori. Allura si mise a taliare la vitrina col costume da bagno, parenno sempri un passante qualisisiasi.
E la vitti, la machina, rispecchiata nel vitro. Non potiva essiri che quella.
Era parcheggiata squasi di traverso a manco di cinco metri da lui, le rote di darrè verso il marciapedi, ma il cofano già direzionato in modo di scansare subito alla partenza la machina che c’era davanti, il motore addrumato. La portiera posteriore era mezza aperta e lo era macari quella del posto allato al guidatore. Dintra ci stava uno che fumava e taliava fisso verso l’unica porta di nisciuta ancora aperta del supermercato.
Com’è che non si era addunato di lui mentre che trasiva? Forsi era un principiante. La specie cchiù piricolosa. Abbisognava arrisolviri la faccenna di prescia, aviva davanti all’occhi la mano del rapinatore che tiniva fermo a Gigi.

Di subito gli vinni un’idea che gli parse bona.
Ripigliò a caminare a lento lungo il marciapedi, po’ traversò la strata e s’arritrovò supra al marciapedi opposto.
Tornò tanticchia narrè e, arrivato all’altizza della machina, si voltò a taliarla.
L’omo al posto di guida era sempri tutto intento a osservare la porta del supermercato aspittanno il momento che niscivano i sò complici.
Allura tirò fora dalla sacchetta il telefonino e fici finta di parlari e di ridiri mentri che traversava arrè la strata. In quel momento per tutti era un picciotto che arridiva squasi piegato in dù per qualichi cosa che gli stavano contando al telefonino e caminava ’n mezzo alla strata disinvolto mittenno in difficortà le machine che arrivavano.
Po’ arrivato allato alla machina, di colpo scocciò la pistola e appuiò la canna bella forte alla nuca dell’omo attraverso il finestrino aperto.
«Polizia. Se fai un gesto sei morto» disse con voci ferma e vascia.
L’altro non si cataminò, completamente apparalizzato per la sorpresa e lo scanto.

Torno torno a loro, la vita continuava come sempri. Le machine passavano, le pirsone caminavano. Filippo, che tiniva l’arma in modo che era visibile il meno possibile, pariva uno che stava parlanno con un amico dintra all’auto.
«Spegni il motore e dammi le chiavi. Ma non ti voltare».
L’altro obbedì senza sciatare.
«Resta così. Appena ti muovi o gridi ti sparo».

S’acculò allato alla machina facenno finta che gli era caduta ’n terra qualichi cosa e la stava a circare mentri chiamava rinforzi col cellulare.
Aviva appena finuto di telefonare, che tri òmini niscero di cursa dal supermercato. Non impugnavano armi ed erano a facci scoperta. Uno portava ’na valigetta indove dovivano aviri mittuto il dinaro.
Il primo s’assittò allato al guidatore gridannogli:
«Vai!».
L’altri dù si ghittarono ansanti nel sedile di darrè. Quello alla guida non arrinisciva ancora a cataminarisi.
«Parti, stronzo!».
E in quel priciso momento Filippo, susennosi addritta, fici la sò comparsa.
«Mani in alto. Polizia! Il primo che si muove è morto!».
Pigliati alla sprovista e completamente ’ngiarmati, tutti obbedirono.
E po’ successe il catunio.
I clienti e il personale del supermercato che niscivano facenno voci, ’na volante con la sirena, un’altra volante con una sirena pejo della prima, i quattro ammanettati, Gigi che abbrazzava a Filippo, Filippo che curriva dintra al supermercato e, agguantata al volo ’na commissa strammata, se la strascinava dintra dicennole:
«Vorrei comprare un costume come quello che c’è in vetrina».
’Nzumma, tra ’na cosa e l’altra, perse ancora un’orata.
Angela, appena che se lo vitti comparire accussì tardo, gli spiò arrabbiata:
«Ma come mai ci hai messo tanto?».


«Ho avuto qualche contrattempo» arrispunnì Filippo.

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