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Il ragazzo che disegna gommoni belli (e costosi) come le Ferrari

Un'infanzia segnata dalla malattia e poi la scoperta di una vocazione: progettare superbarche vendute in tutto il mondo

Il ragazzo che disegna gommoni belli (e costosi) come le Ferrari

C'era un bambino che guardava le Ferrari. Era un bambino diverso dagli altri, ipovedente, guai di salute che lo segnavano nel fisico, abituato a essere martellato a scuola: «Perché, come è noto, i bambini sanno essere crudeli. Le elementari e le medie sono state otto anni di inferno». Ma torniamo alle Ferrari. «Io non sapevo che ci fosse stato un signore che si chiamava davvero Ferrari, per me quello era solo il nome di una macchina che tutti riconoscevano a prima vista. Ecco, a me piacerebbe raggiungere lo stesso risultato. Vorrei che tra qualche anno la gente vedendo una barca ormeggiata in un porto dicesse al volo: guarda, quella è una De Francesco. Non mi interessa che sappiano qualcosa di me. Mi interessa che riconoscano il mio lavoro».

Matteo De Francesco adesso ha ventitrè anni, sa che i suoi problemi lo manderanno dentro e fuori dagli ospedali ancora chissà per quanto tempo, ma non si piange addosso per il semplice motivo che ha altro da pensare. Oggi i suoi gommoni, domani le sue barche a vela, dopodomani un'automobile o chissà cosa. «Se dico che voglio creare cose galleggianti che diventino famose come le Ferrari è ovvio che mi si prenda per matto. Ma sono gli obiettivi utopistici ad essere affascinanti».

L'Italia dei cervelli in fuga e quella dei bamboccioni, gli esami infiniti e i treni orrendi dei pendolari. Sono tante le tracce del paese reale che si incrociano nel racconto di Matteo, e sarebbero in fondo banalità da bar se non fosse per un dettaglio cruciale: lui ce l'ha fatta. Ce l'ha già fatta adesso che è ancora un ragazzo, con tanti saluti ai luoghi comuni ma anche agli ostacoli reali, ai muri che ci circondano e a quelli che portiamo dentro di noi. Aveva un sogno, l'ha realizzato. Progetta gommoni, a tempo pieno, prima ancora di avere finito l'università («mi manca solo la tesi»), assunto vicino Milano in una azienda della razza che tiene su il made in Italy. «Fin da bambino ho sempre vissuto il mare con mio padre, in gommone. Non pretendo che tutti subiscano il fascino del mare e tantomeno quello del gommone. Poi c'è la faccenda della vetroresina. Capisco. Sa che odore manda la vetroresina in fase di lavorazione? Un puzza insopportabile, direbbe l'uomo della strada. Beh, per me il profumo della vetroresina è irresistibile».

Bergamasco, liceo artistico al «Manzù», poi i test d'ammissione al Politecnico di Milano: «Ho passato i test sia di architettura che di design. Il buon senso diceva di scegliere la prima, perché un architetto può fare anche il designer ma un laureato in design può fare solo quello. Ovviamente alla fine ho scelto design». Perchè? «Perchè ormai gli architetti sono come gli avvocati, in giro ci sono più architetti che persone. Ho voluto provare una laurea più giovane, più insolita, nella speranza di stuzzicare un eventuale datore di lavoro». È stata dura? «Sì. Mi ha portato al limite fisico e mentale, che al liceo non avevo mai neanche sfiorato. In ogni corso ci sono quei due o tre esami che ti portano vicino al punto di rottura. Poi bisogna aggiungerci le due ore di treno tutti i giorni, in piedi sui vagoni dei pendolari, gelidi o bollenti, sulla tratta peggiore d'Italia. Arrivavo in aula già stremato e la giornata non era ancora cominciata».

È un tipo strano Matteo De Francesco: un mix di umiltà e autostima, in grado di dire cose come «non ho mai avuto fiducia in me stesso», «ho avuto più che altro fortuna»; ma anche «se sto dove sto, evidentemente il mio lavoro a qualcuno piace». La svolta comincia quando, tre anni prima di laurearsi, si presenta a una azienda di gommoni («e lì sicuramente mi ha aiutato il fatto di vivere da sempre in questo ambiente, di avere conoscenze ed amici») chiedendo di iniziare a lavorare per loro. «Ero un ragazzino che non aveva mai lavorato, sono andato a fare due chiacchiere col titolare. Nel frattempo avevo acquisito alcune capacità tecniche di modellazione e di progettazione 3D e lui mi ha detto: proviamo. Mi ha dato da disegnare una consolle, la postazione di pilotaggio di un battello di sette metri. Non è andata a buon fine. Ma evidentemente sono riuscito a fare in modo che si interessasse a me».

Adesso Matteo è assunto a tempo pieno, disegna quei mostri che sfrecciano sulle nostre coste: «Gommoni a chiglia rigida, un settore a sè, con un suo mercato. Cose che nei sedici metri arrivano a sette, ottocentomila euro, non esattamente giocattoli per tutte le tasche. Il mio primo è stato un dieci metri e mezzo cabinato: nel catalogo dell'azienda c'era un vuoto, serviva un prodotto nella fascia a metà tra l'otto e il dodici metri». Sono roba che viaggia veloce, come progettate lo scafo per essere sicuri che regga l'impatto con le onde? «Diciamo che nel dubbio è meglio pesare un po' di più, rinunciare a qualche nodo di velocità, ed essere sicuri che tutto stia insieme».

Si dice che realizzare i propri sogni è una sventura, perché poi non c'è più nulla a farci andare avanti. «È un problema che non mi tocca, perché di sogni ne ho una scorta abbondante. Intanto mi diverte il mio lavoro di oggi, mi piace seguire il progetto da quando prende forma nella mia mente a quando entra in mare. Ma mi piacciono anche le persone che si sanno reinventare, non disegnerò gommoni per tutta la vita. Sono solo all'inizio, ho ambizioni e progetti». Okay, chiaro. Ma allora, delle due l'una: o quelle sulla generazione degli sdraiati sono chiacchiere senza senso e senza fondo, o Matteo De Francesco è un soggetto anomalo.

«Il giudizio di ogni generazione su quella arrivata dopo è sempre stato severo. Per chi ha fatto la guerra i ragazzi degli anni Sessanta avevano la pappa fatta, per la generazione del boom quella degli Ottanta era fatta di stupidi edonisti. Insomma, che gli adulti di oggi non apprezzino i giovani fa parte del gioco. Ciò premesso, che io riscontri nei miei coetanei un certo disinteresse nel progettarsi un futuro è vero. Vabbè. Io vado per la mia strada. Non dirò mai di essere bravo, o che i miei progetti sono fantastici.

Semplicemente, ho avuto la fortuna di poter dimostrare qualcosa: se non il mio valore almeno il mio estro e la mia voglia di fare».

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