Controcultura

Rai, «Don Matteo» non basta Serve un'identità

In questa rubrica non si parla di politica. Tanto meno di nomine o di poltrone. «L'arte della TV», fin dai suoi esordi, ha scelto di trattare la questione televisiva prevalentemente dal punto di vista estetico. Ci piace un programma, lo segnaliamo; non ci pare efficace, esercitiamo la nobile e doverosa arte della stroncatura.

Per una volta, i fatti degli ultimi giorni ci spingono a commentare la situazione di stallo dei vertici Rai, ipotizzando magari un ruolo diverso per la più grande - in termini numerici - azienda culturale pubblica in Italia. Sulla prima questione c'è poco da dire: non basta un nuovo cda, solito gioco di società tra governo e opposizione, a disegnare una strategia che permetta a ciò che un tempo veniva rappresentato come un colosso in regime di monopolio non solo di sopravvivere, ma se possibile anche di espandersi.

Negli anni la Rai ha dovuto cedere posizioni. Dello sport (calcio, F1, motociclismo) non sono rimaste che le briciole. Talent e spettacoli di intrattenimento sono transitati sulle reti a pagamento. Non è chiaro come operare sul digitale, opzione che il nuovo pubblico gradisce perché non costretto da vincoli di orario e programmazione. Negli ultimi tempi la Rai sembra essersi rassegnata a fidelizzare telespettatori tradizionali, di età avanzata, ai quali è apparentemente più semplice somministrare le ennesime stagioni di Don Matteo e del Commissario Montalbano, rincorrere il trash delle reti concorrenti, ipotizzare ancora una volta il contenitore giurassico di Domenica In per il prossimo autunno o tenere in vita il desueto Fabio Fazio con la bombola a ossigeno.

Per chi non è più giovanissimo, ripeto, la Rai è stata a lungo sinonimo di cultura, basti pensare al ruolo storicamente giocato dal maestro Manzi e dai quiz di Mike Bongiorno nell'alfabetizzazione del Paese. Erano altre epoche, d'accordo, che non si ripeteranno, ma allora, per paradosso, non sarebbe forse opportuno che ciascuno dei tre canali in chiaro si dotasse di una propria precisa identità? Può darsi che uno scenario simile ricordi la Rai lottizzata della Prima Repubblica (che non era nemmeno male, per la verità), eppure destinare una rete a spettacolo e intrattenimento, un'altra a politica e attualità, la terza a programmi culturali e sperimentali consentirebbe agli utenti di orientarsi e di scegliere, senza imbattersi nei tragici doppioni tarati su chi fa peggio.

Ci vogliono manager illuminati e visionari. Quando gli ascolti calano è il momento di rischiare. Alcuni dei cosiddetti format hanno fatto il loro tempo e bisogna voltare pagina. Nuove idee, nuove facce, più cultura e meno idiozia generalizzata nella Rai del prossimo futuro. Innovatori ce ne sono sempre stati e non è solo questione di budget. Vanno cercati e, se non si trovano, inventati.

Cominciando col pensare che i più giovani non sono necessariamente i più stupidi e che non si può mantenere un'azienda di Stato così imponente solo aspettando lo share del Festival di Sanremo.

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